Danilo Maestosi
Alla Galleria Comunale di Roma

Espressionismo antifascista

Una grande mostra sull'Espressionismo italiano degli anni Trenta e Quaranta fa luce su un aspetto poco noto dell'arte al tempo del fascismo. Da Scipione a Fontana, da Mafai a Afro, da Vedova a Guttuso

Il primo impatto è con un deja vu. Già, quante volte abbiamo ammirato quel quadro che domina la parete del primo piano: Il cardinale decano di Scipione (nella foto accanto) , forse il capolavoro più noto della galleria comunale di Roma in via Francesco Crispi, che ospita questa mostra per celebrare i cento anni della sua fondazione.  È il ritratto del cardinale Vincenzo Vannuttelli, tre conclavi, 94 anni al servizio con altalenante fortuna dei pontefici che hanno governato il Vaticano dopo la presa di Porta Pia, combattendo come un peccato il virus del modernismo che aveva segnato la fine del loro potere temporale e la proclamazione di Roma capitale dell’Italia unita. L’autore, Gino Bonichi, nascosto dietro quel nomignolo da console, lo dipinse nel 1930, in pieno regime fascista, a qualche giorno dalla morte, che tre anni dopo avrebbe tolto di scena anche lui.

La posa è quella classica dei papi sul trono. Lo sguardo fisso in avanti a dominare l’infinito, il corpo avvolto nel mantello di porpora, le mani raccolte in grembo. A ribaltare l’iconografia due anomale quinte: a destra una gigantesca chiave, come quelle con cui si celebra l’avvio dell’Anno Santo, a sinistra un fanciullo con la faccia da angelo che gioca come una trottola con l’obelisco al centro di piazza San Pietro. Ma a dominare è soprattutto il fondale, quella cupola incombente della Basilica che si prolunga nella danza di fantasmi delle statue sopra il porticato. E quel cielo livido e acceso da bagliori di fuoco come un annuncio di apocalisse, che in un altro quadro lì accanto Scipione cercò di fissare nell’immagine di un profeta al galoppo sul dorso di un cavallo. Ma anche come l’incubo di una città che stava cambiando anima e pelle, affidato ad uno scorcio, datato anch’esso 1930, dell’abitato di Borgo che gli urbanisti di Mussolini si apprestavano ad abbattere per la prospettiva spettacolare di via della Conciliazione: una piccola tela impregnata dalle stesse minacciose tonalità, riesposta per l’occasione sulla stessa parete.

Bonichi era un giovane anarchico e visionario ammalato di tisi che ballava la sua fragile esistenza in bilico su un precipizio senza fondo, la religione cattolica era una consolazione cui si aggrappava, ma anche una negazione di vitalità, un concentrato di rinunce, ipocrisie, compromessi. Un conflitto di sentimenti ed emozioni che guida la sua tavolozza verso una ribellione senza tregua, una ricerca di verità che lo àncora alla figurazione ma continua a sfuggirgli lungo le derive di visioni che alterano il corso del tempo. Prima di misurarsi col ritratto di quel porporato, che nonostante la longevità ha perso la partita a scacchi con la morte, l’autore visita la sua salma esposta sull’ultimo giaciglio e, fissa in bianco e nero senza alcuna rimozione i segni della sconfitta in uno schizzo, che i curatori della mostra hanno recuperato ed appeso accanto alla grande tela del cardinale. Un confronto illuminante, che spazza via la sensazione di già visto. A me l’aggiunta di quel disegno funebre ha inciso nello sguardo un chiave di lettura inedita. Avevo sempre pensato al cardinal decano come alla raffigurazione di una mummia. E invece mi sono reso conto che Scipione lo aveva riplasmato, lui e il potere della Chiesa che incarnava come uno zombie, un personaggio redivivo. Con uno dei miracoli che solo la grande pittura sa fare il pittore lo aveva restituito alla vita con un altro aspetto, un volto severo e poco rassicurante, ma più giovane e agguerrito. Una forma che prende corpo in un’altra forma grazie alla fantasia di un pittore ossessionato dal non senso della propria stessa fine, la realtà ribaltata in una realtà più intima, personale, incalzante, liberatoria.

Quale prologo migliore per introdurre il significato e il valore aggiunto di questa rivisitazione? Per spiegare il titolo che la battezza: L’estetica della deformazione? E preparare lo spettatore ad immergersi in un viaggio all’indietro, in quella stagione tra gli Anni Trenta e Quaranta cui appartengono gli autori chiamati alla ribalta, e il movimento, la rivoluzione estetica dell’espressionismo, che in qualche modo li collega tra loro, con la storia del proprio paese con cui fare i conti, e con altre esperienze europee, in Francia e in Germania, che hanno fatto loro da battistrada, fonte d’ispirazione, modello?

Una ribellione che dà voce al disagio esistenziale, alla protesta antiaccademica e alla lotta politica di una generazione di artisti tra le due guerre. Incardinata su una serie di scarti di linguaggio. La prevalenza della visione soggettiva rispetto alla rappresentazione oggettiva della realtà; un senso di inquietudine, una crisi di coscienza, che spinge all’alterazione della forma idealizzata del classicismo e trova sfogo nella ricerca del primitivo e del selvaggio; la netta prevalenza del colore sul disegno.

In Italia l’espressionismo trova il suo bersaglio principale nei canoni del ritorno all’ordine che, adeguandosi alle spinte prevalenti del regime mussoliniano, volta le spalle all’ideologia del progresso del primo futurismo e alla furia iconoclasta delle avanguardie. Il risultato è una trasgressione vistosa che però tende a procedere sottotraccia, evitando sconfinamenti espliciti nella politica per non compromettere l’accesso alle ribalte ufficiali.

La mostra restringe il campo d’indagine ai palcoscenici di tre grandi città, Roma la capitale, Milano e Torino i due centri del Nord dove la controcultura dell’espressionismo e la lotta al clima di restaurazione imperante, trova tra gli intellettuali più sponde, più stimoli di indirizzo e revisione critica. Alla base c’è la necessità di rimettere in vista da nuove angolazioni i tesori della galleria comunale, in prevalenza di artisti d’orbita romana, e valorizzare i prestiti, inediti per la nostra città e particolarmente incentrati sul Nord, della collezione milanese Iannaccone. Una carrellata di 103 opere, trasformata in occasione da non perdere da due scelte di fondo, rare e controcorrente nel panorama espositivo attuale.

La prima è l’ancoraggio ad un criterio estetico, la deformazione, che facilita la comprensione delle opere e riporta al centro dell’attenzione un approccio all’arte, ai suoi fondamenti più specifici e alla sua storia che la critica modaiola del pensiero debole sembra aver accantonato. La seconda, altrettanto rara, poggia su un lavoro di cucitura di biografie e stili che senza seguire pagelle e classifiche di merito, notorietà e mercato tenta di ricostruire la trama di relazioni, scarti, influenze, anche da discipline parallele, che innerva la storia della cultura e dell’arte, offre alla visione e alla memoria strumenti più duttili, radici che penetrano più a fondo. Specchi che restituiscono alla figura di ogni singolo artista contorni d’epoca indispensabili per capire da dove nascono le intenzioni che orientano in quel momento le loro scelte. Trentatré gli autori richiamati alla ribalta, con un dosaggio diverso di opere in esposizione, dal copione a campo largo dell’espressionismo, che per alcuni sarà solo un momento di transito.

Come avviene a Lucio Fontana, incluso nel capitolo milanese, dedicato all’esperienza del gruppo che ruota per qualche anno attorno alla rivista Corrente: arrivato da poco dall’Argentina è ancora legato alla tradizione della scultura da cui ha preso avvio e che lui interpreta con un’irrequietezza che nel dopoguerra lo guiderà a sfondare con l’uso dei tagli sulla tela la barriera della terza dimensione. Come avviene a Emilio Vedova (nella foto qui accanto), il cui furore espressivo non è ancora approdato all’informale, imbrigliato nelle gabbie multiverso di un cubismo rivisitato. Sulla passerella di Milano sfila a inizio carriera e si fa notare anche il giovane Renato Guttuso per la forza senza fronzoli dei suoi ritratti. Scolpiti ma non trasfigurati dal colore come la platea di personaggi dipinti da Renato Birolli, capofila del movimento lombardo, volti e corpi che galleggiano in una selvaggia luce cerulea, oppure ci appaiono sfarinarsi in un denso pulviscolo di pennellate bianche.

Ognuno segna a suo modo e condivide con gli altri il proprio distacco dal ritorno all’ordine, il Novecento sigillato entro i confini controllati di un classicismo che rivaluta l’accademia, allontana dai propri orizzonti il furore delle avanguardie, e contribuisce a stabilizzare il regime fascista.

Uno scudo che offre canali d’ascesa anche ad Aligi Sassu, il peccato originale di un padre socialista e una vocazione anarchica che lo spinge in politica a battersi contro ogni dittatura. E in pittura a reinterpretare la febbre di movimento di Boccioni in una stesura di colori accesi e di segni frammentati che demolisce la pesantezza dei corpi, e insegue fantasie mitologiche e barocche. Ma neanche il favore di Marinetti potrà salvarlo dalle ritorsioni della gerarchia fascista: processi, condanne, mesi e mesi di prigione.

L’arte come scuola e laboratorio di introspezione e dissenso, un processo sottotraccia che coinvolge scrittori, poeti, fa emergere una generazione di critici, come Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan, che getteranno le basi per i fermenti di innovazione e impegno sociale del dopoguerra. Un bacino di creatività che sforna spesso nomi di autori, che ormai solo pochi amatori storici specializzati, e collezionisti ricordano e che invece hanno contribuito a tessere la trama più stimolante di quegli anni difficili. Come Badodi, Valenti, Cantatore, per il gruppo milanese. Come, a Torino, Gigi Chessa, pittore e scenografo scomparso giovanissimi, come Nicola Galante, come Francesco Menzio, le cui opere recuperate per l’occasione devono lottare con un destino d’oblio, che ha invece risparmiato Carlo Levi, loro compagno di cordata, grazie ad una biografia da antagonista più prestigiosa e avventurosa, scolpita in un diario di confino, Cristo si è fermato ad Eboli, che per fortuna fa ancora storia.

Più facile per i curatori, vista l’abbondanza dei materiali a disposizione misurarsi con gli autori che a Roma, muovendosi ognuno a suo modo fuori schema, fanno scuola o lasciano segni indelebili di presenza e di transito.

Tra le tante chicche sgranate lungo il percorso mi ha colpito la lunga serie di opere dedicate ai paesaggi della città, riannodati dai fili di quegli sguardi deformanti su cui la mostra richiama l’attenzione. Veri e propri esercizi di stile che usano i panorami di Roma come finestre di desideri, sogni, rimpianti. Maschere per aggirare veti e censure. Guai alzare la voce a rendere esplicito il dissenso in quegli anni in cui l’urbanistica del regime è impegnata n due direzioni convergenti. Isolare monumenti e aree archeologiche della Roma antica per esaltare e legittimare le nuove ambizioni imperiali da aprire nel tessuto di abitazioni senza distinzioni di classe del vecchio centro storico nuove direttrici di penetrazione per la mobilità del futuro. Da lì quei colori cupi che abbiamo visto in Scipione, e che ritroviamo nello scorcio di rovine dipinto dalla Raphael, lituana emigrata e compagna di Mafai, affacciandosi dalla finestra della casa di via Cavour, nei grovigli selvaggi e stropicciati di verde con i quali il giovane Afro ritrae il suo disagio e la sua voglia di dire e scavare più a fondo.

Da lì, con un capovolgimento cromatico che pure nasce da analoghe emozioni, lo spettacolo a pastelli squillanti in cui in un quadro coevo Mario Mafai (nella foto accanto) immerge le rovine polverose di un isolato di case popolari, sventrato e messo a nudo dalle ruspe. Un sogno che scompare, insieme alle tracce di vita povera e schietta che saranno deportate in periferie fuori sguardo. La nostalgia come un seme di ribellione camuffato e lanciato al futuro. Non credo che Fausto Pirandello condividesse lo stesso impegno, quando ha partorito quella veduta, esposta nella sala vicina, in cui cerca di fissare l’abbraccio di colori di un quartiere romano, inquadrato dall’alto. Ma è una tela anch’essa trasfigurata da una tavolozza di fantasia, che spinge a voltare le spalle ad ogni enfasi retorica. L’autore trasforma le pennellate e gli spessi impasti che solcano la superficie in abbracci, carezze.

Le case come carne viva, sensuale, teatri che racchiudono le stesse, grezze vibrazioni di verità di quelle bagnanti nude o seminudi, giovani e vecchie rugose, che saranno il suo omaggio più ricorrente alla commedia umana.

La città come una scena vuota, un congegno visivo che anticipa, trattiene o sprigiona insieme ad ogni storia possibile il corso del Tempo. È l’ultimo salto, l’ultimo prezioso cambio di direzione che mi imprime nella memoria questa mostra. Consegnato a due quadri meta Anni Venti, un siparietto che documenta il breve soggiorno romano di De Pisis, prima del trasloco a Parigi che sigla la sua consacrazione. Ritraggono due viali cittadini, segnati da una doppia fila di alberi, Le pennellate a macchie sono febbrili, ma concise. Pittura ridotta all’osso, asciugata con calcolata avarizia. L’istante come un momento d’eternità. Una distorsione metafisica.

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