Herman Melville
Moby Dick/3

Ecco Achab

Nella terza puntata delle suggestioni del romanzo di Melville - tradotto per Succedeoggi da Alessandro Macchi e illustrato da Roberto Cavallini - entra in scena Achab

CAPITOLO XXIII
LA COSTA A SOTTOVENTO
Quando, in quella gelida notte d’inverno, il «Pequod» cacciò la prora vendicatrice nelle fredde onde maligne, chi dovevo vedere alla barra se non Bulkington? Bulkington che avevo incontrato nella locanda di Bedford. Osservai, con cordiale simpatia e sgomento, quell’uomo che, in pieno inverno, era sceso allora da un viaggio di quattro anni pieno di pericoli, e poteva nuovamente cacciarsi in navigazione con tanto ardore per un altro periodo di tempeste. La terra pareva scottargli sotto i piedi.

Le cose più degne di ammirazione sono sempre quelle inesprimibili, le memorie profonde non producono epitaffi; accadeva a lui, la sua sorte fu quella di una nave sbattuta dal fortunale che avanza miseramente lungo la costa a sottovento. Il porto sarebbe disposto a darle riparo, il porto è misericordioso, nel porto c’è sicurezza, comodità, focolare, cena, coperte calde, amici, tutto ciò che è benevolo al nostro stato mortale. Ma in quel vento di tempesta il porto, la terra, sono il pericolo più crudele per la nave. Bisogna ch’essa fugga ogni ospitalità; un contatto solo della terra, anche se soltanto sfiorando la chiglia, farebbe rabbrividire il bastimento da cima a fondo.

Con tutte le sue forze, il vascello dispiega tutte le vele per scostarsi e, così facendo, combatte proprio con i venti che lo vorrebbero portare in patria, torna a cercare l’assenza di terra nel mare infuriato, precipitandosi perdutamente nel pericolo cercando la salvezza: il suo unico amico è il suo nemico più feroce!

Ti è chiaro ora, Bulkington? forse sono barlumi di quella verità intollerabile ai mortali, che ogni pensare serio e profondo è soltanto lo sforzo coraggioso dell’anima per mantenere la libera indipendenza del suo mare, mentre i venti più aspri del cielo e della terra cospirano a gettarla sulla costa traditrice e servile.

Ma la verità più alta nell’assenza della terra, la suprema verità senza rive, infinita come Dio, rende preferibile inabissarsi in quell’abisso ululante che venire vergognosamente sbattuto a sottovento, sulla costa infida.

CAPITOLO XXIV-XXV – XXVI – XXVII
CAVALIERI E SCUDIERI
Starbuck era il primo ufficiale del «Pequod»: era nato a Nantucket ed era quacchero per tradizione di famiglia. Compariva lungo e severo con una pelle liscia e schietta come fosse ben aderente al corpo quasi fosse un ottimo costume che lo avvolgesse ben stretto e sembrava come imbalsamato dall’interna salute e robustezza quasi fosse un egizio redivivo.

Starbuck pareva fatto per durare lunghi secoli futuri rimanendo sempre tale e quale, poiché, sia alla neve dei poli o al sole dei tropici, la sua vitalità interiore era garantita per tutti i climi, quasi fosse un cronometro brevettato.

Coscienzioso fuori dal comune per un marinaio e dotato di una profonda religiosità naturale, era incline fortemente alla superstizoine derivata dalla selvaggia oceanica solitudine della sua esistenza, ma quel genere di superstizione che in certi individui sembra sorgere, in qualche modo, più dall’intelligenza che non dall’ignoranza. I portenti esteriori e i presentimenti dell’animo erano a lui congeniali frenando l’impeto selvaggio del coraggio di altri: «Io non voglio nella lancia nessuno» diceva Starbuck «che non abbia paura della balena». Con questo pareva intendere non soltanto che il coraggio più sicuro e più utile è quello che nasce da un giusto apprezzamento del pericolo che si affronta, ma che un uomo totalmente privo di paura è un compagno molto più pericoloso di un codardo.

Starbuck non era un crociato alla ricerca di pericoli: in lui il coraggio non era un sentimento, ma più semplicemente una cosa conveniente e sempre disponibile in tutte le occasioni pratiche della vita.

Un coraggio che però non sa come reagire a quegli spaventi più minacciosi, perché più afferenti allo spirito, che talvolta si addensano indecifrabili sul volto di un potente.

Ma questa sacra dignità di cui parlo la potrete vedere risplendere nel braccio che alza un piccone o che pianta una caviglia: quella dignità democratica che, su tutti, irradia senza fine da Dio, da Lui! Il grande Dio assoluto che è centro e circonferenza di ogni democrazia! La Sua onnipresenza è la nostra divina eguaglianza!

E così, dunque, ai più vili marinai e rinnegati e reietti io attribuirò d’ora in poi qualità elevate, benché oscure, perchè forse anche il più decaduto tra tutti, s’innalzerà talvolta fino ai più alti monti, se toccherò il braccio di quel lavoratore con un po’ di luce eterea, spiegherò un arcobaleno sopra il suo disastroso tramonto: Tu dunque Spirito dell’Eguaglianza, confermami in quella dignità contro tutti i critici mortali, tu giusto Spirito, che hai disteso sopra tutta la mia specie un regale mantello di umanità! Sostienimi, Tu, o grande Iddio democratico.

Stubb era il secondo ufficiale, era nativo del Capo Cod; e perciò, secondo l’uso locale, lo chiamavano Capocodino. Uno spensierato né codardo né intrepido, che pigliava i rischi come venivano, con un’aria indifferente, e che, quando nella caccia il pericolo gli era più vicino, sbrigava il suo lavoro calmo e concentrato come un falegname ebanista impiegato per tutto l’anno.

Di buon umore, spontaneo e noncurante, presiedeva la sua barca come se uno scontro più micidiale fosse soltanto un pranzo, e l’equipaggio gli invitati. La cosa che lo aiutava a portare in giro quel suo buon umore quasi empio, doveva essere la sua pipa. Poiché, come il naso, la sua corta pipetta nera era una delle fattezze ordinarie della sua faccia. Vi sareste quasi aspettato che lui scendesse dalla cuccetta senza naso piuttosto che senza pipa.

Flask era il terzo ufficiale, nativo di Tisbury, nel Vigneto di Marta. Un giovanotto basso e robusto, rubicondo, molto combattivo nei confronti delle balene, pareva in qualche modo persuaso che i grandi Leviatani si fossero messi contro di lui personalmentc e tradizionalmente, e che quindi fosse per lui una specie di punto d’onore distruggerli ogni volta che li incontrava. Nella sua umile opinione la balena stupenda era solo una specie di topo, o sorcio d’acqua, ingigantito, che richiedeva soltanto un po’ di furbizia e una non grande spesa di tempo e di fatica per farsi uccidere e bollire.

Ebbene, questi tre ufficiali, Starbuck, Stubb e Flask, erano persone importanti. Erano loro che, per legge riconosciuta da tutti, comandavano tre delle lance del «Pequod» in qualilà di capibarca. In quel grande ordine di battaglia in cui il capitano Achab avrebbe probabilmente schierate le sue forze per scendere contro le balene, questi tre uomini erano come dei capitani di altrettante compagnie come un terzetto di lancieri mentre i ramponieri erano come tiratori di giavellotto.

E siccome in questo famoso mestiere della caccia alla balena ogni ufficiale, o uomo di comando, è come un antico cavaliere medioevale, così è sempre accompagnato dal suo pilota o ramponiere.

Innanzi tutto c’era Quiqueg, che Starbuck, il primo ufficiale, s’era scelto come scudiero.

Poi veniva Tashtego, un indiano puro sangue del Capo Allegro, il promontorio più occidentale del Vigneto di Marta, dove esiste ancora l’ultimo avanzo di un villaggio di pellerossa, che per molto tempo ha fornito alla contigua isola di Nantucket molti dei suoi più audaci ramponieri: nella baleneria usualmente li chiamano col nome generico di Capi Allegri.

Tashtego dalla capigliatura lunga, sottile e nerissima, era lo scudiero del secondo ufficiale Stubb.

Terzo fra i ramponieri era Deggu, un gigantesco negro selvaggio nero come il carbone, con un passo leonino: un assuero a guardarlo. Gli pendevano dalle orecchie due cerchi d’oro tanto grossi che i marinai li chiamavano perni ad anello e parlavano di assicurarvi le drizze delle vele di gabbia. Si aggirava tra i ponti in tutta la sua notevole altezza, dritto come una giraffa e i marinai bianchi sembravano a suo confronto come delle bandiere bianche venute da una fortezza a implorare tregua. E, strano quasi a dirsi, questo negro imperiale era lo scudiero del piccolo Flask che accanto a lui pareva una pedina degli scacchi.

Quanto al resto dell’equipaggio del «Pequod» erano quasi tutti isolani, ed erano detti anche Isolati. Era come una deputazione proveniente da tutte le isole del mare e dai confini della terra, che accompagnava il vecchio Achab sul «Pequod» a portare i dolori del mondo dinanzi a quel tribunale da cui pochi ritornano.

CAPITOLO XXVIII
ACHAB
Era una di quelle mattinate di transizione appena dopo Natale, meno opprimente ma sempre piuttosto grigia e tetrea, e la nave spinta da un vento favorevole sfrecciava nel mare con dei balzi che sapevano di vendetta correndo rapida e scattante, quand’io salendo in coperta alla chiamata della guardia del mattino, appena puntai gli occhi al coronamento, brividi di presagio mi percorsero.

La realtà superò le apprensioni: il capitano Achab era sul cassero.

Tutta la sua figura alta e grande sembrava fatta di solido bronzo e plasmata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso del Cellini. Un segno sottile come una bacchetta, d’un biancore livido, si apriva la strada di tra i capelli grigi e proseguiva dritto da un lato della faccia e del collo abbruciacchiati dall’abbronzatura, finché scompariva sotto il vestito. La cicatrice perpendicolare somigliava a quella che si produce talvolta sul tronco dritto di un grande albero, quando la folgore vi si precipita lacerante e, senza divellere un sol ramo, spella da cima a fondo e spacca la corteccia prima di perdersi nel suolo, lasciando la pianta ancor verde di vita, ma segnata. Se questo segno era nato con lui o se era invece la cicatrice di una ferita disperata, nessuno lo poteva dire con certezza.

Tanto fortemente m’impressionò l’insieme del truce aspetto di Achab e quel livido sfregio come un marchio che lo segnava, che dapprima non m’accorsi come non poco del suo strapotente effetto truce fosse dovuto alla barbarica gamba bianca sulla quale poggiava in parte.

Quella gamba d’avorio gli era stata intagliala a bordo della nave nell’osso levigato della mascella di un capodoglio. Da ciascuna parte del cassero e vicinissimo alle sartie di mezzana c’era un buco di trapano nella tavola di coperta, profondo circa la metà d’un pollice o giù di lì. Con la gamba d’osso assicurata in quel buco e un braccio levato aggrappato a una sartia, il capitano Achab stava eretto, guardando dritto al largo oltre la prora della nave che continuamente beccheggiava.

Non disse una parola, e nemmeno i suoi ufficiali fiatarono, sebbene tradissero chiaramente, nei loro minimi gesti e nelle espressioni, la disagiata, se non penosa, coscienza di trovarsi sotto l’occhio corrucciato del padrone. E non soltanto questo, ma il cupo, folgorato Achab stava loro innanzi con una specie di crocifissione sul volto, in tutta l’indicibile imperiosa e opprimente dignità e di un indicibile dolore.

Per il momento c’era poco o nulla che potesse impegnare o distrarre Achab da se stesso e spazzar via, almeno per un poco, le nuvole che gli stavano ammassate a strati sulla fronte, perché come sempre le nubi scelgono di radunarsi sulle vette più alte.

CAPITOLO XXIX
ENTRA ACHAB, POI STUBB
Altri giorni passarono e, abbandonati a poppa nevi e montagne di ghiaccio, il «Pequod» ora andava rollando nella radiosa primavera di Quito che regna in mare quasi perenne sulla soglia dell’estate perpetua propria del tropico.

Ma tutte te magie d’una simile stagione di giorrni tiepidi e limpidi e notti stellate e maestose non si limitavano a regalare nuovi incanti e poteri all’universo esterno. Interiormente esse si rivolgevano all’anima, specialmente quando scendevano le ore dolci e tranquille della sera: allora la memoria si specchiava nei suoi cristalli, come il ghiaccio limpido che ama specialmente formarsi nei crepuscoli silenziosi. E tutti questi stimoli sottili sempre più operavano sull’animo complesso di Achab.

La vecchiaia è sempre insonne, come se l’uomo, da quanto più tempo è legato alla vita, tanto meno si cura di ciò che somiglia alla morte, così era per Achab. E qualche volta mormorava tra sé e sé: «A un vecchio capitano come son io fa l’effetto di sprofondarsi nella propria tomba, discendere per questo stretto boccaporto verso la cuccetta che pare una fossa, è proprio come calarsi in un sepolcro».

Quasi ogni vetiquattr’ore quando i quarti di notte erano al loro posto e l’equipaggio affaticato dormiva, emergeva il vecchio afferrandosi alle ringhiere per aiutarsi. Qualche po’ di considerazione umana gli era rimasta e a quell’ora evitava di perlustrare il cassero pestando con la gamba d’avorio salvaguardando il sonno degli uomini nelle cuccette sotto i ponti: il colpo secco e lo strepito di quel passo osseo avrebbe avuto una tale eco che i dormienti avrebbero sognato denti di pescicani che li stritolavano.

Ma una volta che il malumore gli pesava addosso troppo greve per permettere riguardi comuni e che con passo massiccio e pesante egli misurava la nave dal coronamento al maestro, Stubb salì sopra coperta e con una certo malsicuro fastidio ma timidamente scherzoso, lasciò intendere che se il capitano Achab piaceva passeggiare sulla plancia, qualche modo di soffocare il rumore ci doveva pur essere e accennò con parole esitanti e indistinte a un batuffolo di stoppa il cui inserire il calcagno d’avorio.

“Mi prendi per una palla da cannone, Stubb”, disse Achab “che tu vuoi comprimermi nella stoppa in questa maniera? Ma che sto a discutere, sparisci, scendi nella tua tomba notturna dove la gente come te dorme nel sudario del lenzuolo per abituarsi a quello definitivo. Via, cane, alla cuccia!”

E Stubb eccitato. “Capitano non sono abituato a sentirmi parlare a questo modo, e non mi va proprio per niente, signor Capitano”

“Basta”, ruggì Achab allontanandosi rabbioso digrignando i denti, e Stubb facendosi coraggio” Non mi lascerò chiamare cane senza ribellarmi, signore”

E Achab “E allora lasciatevi chiamare dieci volte asino, mulo e somaro. Levati dai piedi se no ti spazzo via dalla terra” e gli andò addosso con aspetto tanto terrificante che Stubb senza volerlo battè in ritirata e borbottò fra sè e sè “non sono mai stato trattato così prima d’ora senza ricambiare con un pugno sul muso” e infilò il boccaporto.

CAPITOLO XXX
LA PIPA
Quando Stubb se ne fu andato, Achab stette per un po’ curvo sulla murata e poi, come faceva da un pezzo, chiamato un marinaio della guardia, lo mandò sotto coperta a prendergli lo sgabello d’avorio e anche la pipa. Accendendo la pipa alla lampada della chiesuola e disponendo lo sgabello a sopravvento sul ponte, si sedette a fumare.

Ai tempi degli antichi norvegesi i troni dei re di Danimarca erano fatti con le zanne dei narvali.

Come si poteva dunque guardare Achab seduto su quel treppiedi d’ossa senza pensare alla regalità che simboleggiava quel sedile? Un Khan della plancia, un Re del mare, un gran Signore dei Leviatani, questo era Achab.

Alcuni istanti passarono, nei quali il denso vapore gli usciva di bocca in soffi rapidi e continui che gli ritornavano sulla faccia col vento. «Ebbene», disse tra sé alla fine, levandosi il cannello di bocca, «questo fumare non mi calma più. Pipa mia, devo star ben male, se il tuo incanto è scomparso!”

E gettò a mare la pipa ancora accesa. La brace sibilò tra le onde, e nell’attimo stesso la nave si lasciò veloce alle spalle la bolla che la pipa aveva fatto affondando.

Calatosi il cappello sugli occhi, Achab barcollante, si mise a camminare avanti e indietro sul ponte.

XXXI
LA REGINA MAB DEI SOGNI
La mattina dopo Stubb abbordò Flask … “un sogno strano … ho sognato che il vecchio mi prendeva a calci con la gamba d’avorio ed io cercai di ricambiare ma nel dare il calcio mi è partita di netto la gamba” … poi con tutta la rabbia che avevo in corpo pensavo “Ma, via! ma quella non è una gamba vera è una gamba falsa” ed è una bella differenza tra il calcio di una gamba viva rispetto a una morta.

E Flask: “Il calcio era con una gamba d’avorio non con una di abete comune, caro Stubb e forse con le migliori intenzioni …No, sei stato preso a pedate da un grad’uomo, un vero onore, io lo considero un onore … Nella vecchia Inghilterra i grandi signori giudicavano un grande onore essere schiaffeggiati dalla Regina per divenire cavalieri della giarrettiera …”

3. Continua.


La traduzione del romanzo di Herman Melville, di cui Succedeoggi sta pubblicando un ampio sunto, è di Alessandro Macchi. Le fotografie originali sono di Roberto Cavallini.

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