A proposito di “Magnificat Amour”
Doppia Santacroce
Citazioni nascoste, giochi letterari e una trama forte: il nuovo romanzo di Isabella Santacroce racconta la storie di due ragazze dai destini opposti (ma legati tra loro)
Uno dei più importanti poeti e intellettuali del Secondo Novecento italiano, Edoardo Sanguineti, era noto per la passione per il cosiddetto “ammiccamento letterario”; ecco che i suoi componimenti contengono spesso riferimenti più o meno espliciti ad altre opere letterarie. Inizia il gioco: il lettore, almeno quello dotato di una discreta cultura, è chiamato a risolvere un puzzle di citazioni. Un simile divertissement lo ingaggia Isabella Santacroce in Magnificat Amour (Il Saggiatore, 488 pagine, 19 euro), in cui ad esempio Lucrezia, uno dei protagonisti, ha, come in American Psycho, una fissazione morbosa per le marche, siano queste di vestiti o di lussuosi prodotti d’élite. E come nel romanzo di Ellis, le descrizioni dei brand e dei relativi prezzi sono minuziose: «Via Monte Napoleone, ore diciassette, vetrina con abito Balmain in damasco viola drappeggiato dal fiocco Lavallière, 5.000 euro». Non basta: Santacroce dispone per i suoi fidati lettori un percorso di continui rimandi ai personaggi dei suoi altri romanzi, quando non addirittura menzioni esplicite dei precedenti lavori (come Fluo o Amorino). Chiaro: ai fini del menzionato gioco non è secondario che nel romanzo compaia Isabella Santacroce stessa, che redige un diario e non di rado torna con la mente ai testi del passato, ma in più di un’occasione sono le vicende a celare ammiccamenti da svelare (in ciò facendoci ricordare Voltami dell’oristanese Savina Dolores Massa, dove questo citazionismo è frequente).
Ma veniamo alla trama: due cugine, Lucrezia: bella e povera e Antonia: ricchissima e brutta, sono spesso in competizione. Nello specifico, competizione per accaparrarsi le attenzioni prima della nonna, figura verso cui hanno una devozione quasi religiosa, e poi di Manfredi, pianista squattrinato e opportunista. A movimentare le cose subentrano poeti decaduti e alcolizzati, donne ricche e indolenti, suore devote e dedite all’autofiction. Ognuno di essi, così come Lucrezia e Antonia, parla per voce propria in sezioni dedicate ad hoc. Se si escludono gli sproloqui di Manfredi, resi con un eccezionale sperimentalismo caotico, si registra un generale monolinguismo: lo stile è calibrato su un lirismo aulico che di per sé è ben congeniato, e anzi dà la misura di come al solito Santacroce si distingua dalle tendenze di massa, ma appare a volte inverosimile che tutti pensino e si esprimano nel medesimo modo. Per quanto lo stile sia di indubbia ottima fattura, manca la polifonia: le voci sono diverse, ma non sono diversificate. La voluta ampollosità di alcuni passaggi, invece, crea un fortunato cortocircuito tra la bassezza dei momenti descritti e una lingua magniloquente, elemento che non fa che sottolineare lo squallore di certe specifiche situazioni.
In generale il racconto regge bene e non perde di credibilità, complice soprattutto il fatto che sono evitati in modo sapiente quei banalissimi luoghi comuni che vorrebbero l’adolescenza come un periodo di svagatezza e serenità (e attenzione: non è l’ennesimo romanzo sull’adolescenza, argomento pur caro alla scrittrice riccionese ma che qui costituisce solo una sezione del plot). Anche la vita adulta è rappresentata in molteplici sfumature – rilassatezza, agio, disperazione o decadimento. Ad avere una parte significativa è la redenzione, che i nostri eroi cercano, in svariati modi, senza mai riuscire davvero a trovarla. Il loro è un continuo rincorrere una salvezza che sembra non poter arrivare. Santacroce si conferma abile investigatrice dei desideri umani, nonché capace di trattare temi differenti con soluzioni che risultano, con le dovute eccezioni, convincenti.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.