Herman Melville
Moby Dick/1

Chiamatemi Ismaele!

Con il proverbiale incipit, "Chiamatemi Ismaele!", comincia la pubblicazione dell'estratto del romanzo di Herman Melville tradotto per Succedeoggi da Alessandro Macchi e illustrato da Roberto Cavallini

CAPITOLO I
O LA BALENA O LA PISTOLA
Chiamatemi Ismaele! Ogni volta che nell’anima mi scende un novembre umido e piovigginoso, specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e far saltar via il cappello dalla testa della gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.

Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola.

Ma non pensate che io mi imbarchi come passeggero. Quando io m’imbarco, lo faccio sempre da semplice marinaio. Per imbarcarsi come passeggero occorre infatti un portafoglio ben fornito. E poi i passeggeri hanno spesso il mal di mare, diventano irascibili, non dormono di notte, non si divertono un granché. Invece come uomo della ciurma si fanno pure un dovere di pagare per il disturbo.

Io non mi imbarco mai come capitano o cuoco anche se sono abbastanza vecchio del mestiere. Lascio la gloria di tali uffici a chi la apprezza. No, quando mi metto in mare, lo faccio da marinaio semplice, ben davanti all’albero di maestra, a perpendicolo sul castello, lassù, in testa all’albero di trinchetto. Sulle prime la scelta è abbastanza spiacevole perché ti fanno sfacchinare e saltare da una manovra all’altra come un grillo in un prato di primavera o ti costringono a cacciar le mani nel secchiello del catrame. E poi spesso devi obbedire a persone che provengono da vecchie famiglie altolocate e questo ti tocca nell’onore, mentre quando ero maestro di scuola in campagna la facevo da padrone e anche i ragazzi più grandi mi stavano davanti come ad una divinità. E’ forte il passaggio, ve l’assicuro, da maestro di scuola a marinaio.

Ma anche questo passa col tempo e con la difficile digestione di Seneca e degli Stoici.

E infine, io mi metto sempre in mare come uomo dell’equipaggio per via di un sano esercizio fisico e dell’aria pura che si gode sul ponte di prora. Infatti, siccome in questo mondo i venti di prua prevalgono di gran lunga sui venti di poppa, il più delle volte (se non si osserva la massima pitagorica di non mangiar fagioli per i noti inconvenienti) il commodoro sul cassero riceve di seconda mano l’aria dai marinai del castello. Egli crede di respirarla per primo, ma non è così.

In modo simile le comunità guidano i loro capi in molte cose, mentre i capi nemmeno lo sospettano.

Ma per quale motivo io, che avevo ripetutamente sentito l’odore del mare come marinaio mercantile, mi fossi ora messo in testa di partire a caccia di balene, a questo può rispondere meglio l’invisibile guardiano dei Fati, che è incaricato della mia costante sorveglianza e che segretamente mi tiene dietro e, in qualche modo inspiegabile, mi trasmette i suoi influssi. E senza dubbio la mia partenza per questo viaggio a caccia di balene era parte del gran programma tracciato tanto tempo fa dalla Provvidenza.

Ma tra i motivi che mi fecero credere che la decisione fosse tutta mia c’era la travolgente idea di incontrare in carne e ossa la grande balena bianca, un mostro così portentoso e misterioso che tutta la mia fantasia ne era piena. Poi i mari tumultuosi e remoti, dove la sua massa si muove come un’isola fluttuante, e ancora, i pericoli indescrivibili e sconosciuti della caccia e le meraviglie che li accompagnano.

Per tutto ciò il viaggio su una baleniera lo sentivo come la scelta giusta. Mi si spalancavano le grandi cateratte del mondo delle meraviglie e, nelle fantasie sfrenate che mi spinsero al mio proposito, nuotavano fin nel profondo dell’animo infinite processioni di balene con, in mezzo a tutte, un grande fantasma incappucciato, simile a una collina di neve nell’aria.

CAPITOLO II
I PREPARATIVI PER IL VIAGGIO
Cacciai una camicia o due nella mia vecchia sacca da viaggio, me la infilai sotto il braccio e partii all’avventura sognando il Capo Horn e il Pacifico. Lasciata la vecchia, buona Manhattan arrivai regolarmente a New Bedford. Era un sabato di dicembre ed era ormai notte. Fui non poco deluso trovando che il battello postale per Nantucket aveva già levato le ancore e che non ci sarebbe stato altro mezzo per raggiungere quel luogo fino al lunedì seguente. Ormai m’ero cacciato in testa di non imbarcarmi altro che su un veliero di Nantucket, perché in tutto ciò che riguardava quell’isola, antica e famosa, c’era qualcosa di bello e di risonante, che mi piaceva straordinariamente. A Nantucket si arenò la prima balena in America, da qui presero il largo le canoe dei pellerossa per inseguire il leviatano e salpò la barca carica di ciottoli per saggiare, lanciandoli, la forza e la distanza necessaria per i primi arpioni. E la flotta crebbe solcando Oceani e catturando prede più di ogni altra.

Avevo davanti una notte, un giorno e un’altra notte a New Bedford e quella notte era scurissima e tetra con un freddo da morire e una gran tristezza. Con dita incurvate come grappini avevo scandagliato le tasche ansiosamente e avevo tirato a galla solo poche monete d’argento.

Per istinto presi le vie che mi portavano al mare, perché là, senza dubbio, c’erano le locande più a buon prezzo, se non le più allegre. Passai sotto l’insegna de “Gli arpioni incrociati”,  ma aveva l’aria di essere un posto troppo costoso. Più avanti mi imbattei nella “Locanda del Pesce Spada” dalle rosse finestre illuminate. Troppo graziosa e amena, pensai.  Proseguii. Ai lati delle strade le case erano blocchi d’oscurità. Qua e là una candela, simile ad un lume che oscilla su una tomba. Raggiunsi presto una luce fumosa che veniva da un edificio basso e largo con la porta aperta e invitante. Inciampai in un braciere spento e nella polvere della cenere mi rialzai seguendo delle voci rimbombanti, aprii una seconda porta e cento facce di pece si voltarono a sbirciarmi mentre in fondo, sul pulpito, un nero Angelo del Giudizio picchiava su un libro parlando dell’oscurità dell’abisso, del pianto, dei lamenti, dello stridore di denti. Ah, Ismaele, bofonchiai arretrando, che senso di trappola mi mette addosso questa chiesa di negri.

Arrivai finalmente a una fosca specie di lume, non lontano dagli scali; sentii un disperato cigolio nell’aria, e guardando in alto vidi un’insegna oscillante su una porta con sopra dipinto qualcosa di bianco che vagamente rappresentava un alto getto diritto di spuma nebbiosa, e, sotto, queste parole: «Allo Sfiatatoio, locanda del Baleniere – Peter Coffin».

Sfiatatoio?! Coffin, Coffin … ma coffin…è… la bara! Che sinistro accoppiamento, pensai.

Era un edificio bizzarro, una vecchia casa a torretta, con un fianco malinconicamente inclinato come fosse paralitico. Era piantata su di un angolo brusco, desolatissimo, dove un vento tempestoso ululava con maggior forza. Nella mia mente gelata mi venne in mente un antico scrittore, delle cui opere io possiedo la sola copia rimasta: “E’ mirabile la differenza se tu consideri il vento dietro il vetro d’una finestra dove il freddo sia tutto al di fuori, o se tu lo osservi invece attraverso una finestra dal telaio dissestato dove il gelo è l’unico sigillo posto dalla Morte come vetraio”.

Sì, questi occhi sono le finestre e questo mio corpo è la casa, pensai. Che peccato, però, che non abbiano tappato le fessure e le crepe ficcando un po’ di canapa e mastice qua e là !

Ma basta con i piagnistei adesso. Raschiamoci il ghiaccio dai piedi gelati, Ismaele, e vediamo che razza di posto è questo “Sfiatatoio”.

CAPITOLI III e IV
LA LOCANDA DEL BALENIERE
L’ingresso della locanda si trovava in un vasto, basso e irregolare vestibolo rivestito di pannelli di legno ricavati dalle murate di un qualche vecchio legno condannato al disarmo. Da una parte stava appeso un quadro a olio molto grande, annerito e sfigurato dal fumo. L’interpretazione era difficilissima, mari in burrasche notturne, la lotta primordiale dei quattro elementi … lo spezzarsi della fiumana del ghiaccio che imprigiona il flusso del Tempo…ma tutte le fantasie cedevano di fronte all’immagine portentosa al centro del quadro dove emergeva un pesce gigantesco: era una balena infuriata che balzava diritta sopra una nave di cui si scorgevano i tre alberi, semiaffondata a capo Horn. Il muro opposto era tutto coperto d’un selvaggio sfoggio di clave e di lance mostruose. Alcune erano ornate fittamente di denti luccicanti, simili a seghe d’avorio con aggiunta di capelli umani, c’era una sorta di falce adatta a un falciatore dalle lunghe braccia e poi attrezzi per la caccia alle balene spezzati e contorti. Seppi che una lancia aveva ucciso quindici balene nelle mani di Nathan Swain, un‘altra nei mari di Giava, al capo Bianco, era entrata in una balena dalla coda e dopo quaranta piedi era uscita dalla gobba. Al fondo del locale, lontano in una tana di tenebre, il bar, sagomato in un rozzo tentativo di riprodurre una testa di balena con l’arcata del grande osso della mascella vasto come una carrozza. Dentro vi erano scaffali miserabili con vecchi boccali, bottiglie, grandi fiaschi. In quelle mascelle pronte per dare rapida morte s’affaccendava come un altro Giona maledetto (e con questo nome davvero lo chiamavano) un piccolo vecchio raggrinzito che vendeva ai marinai deliri e morte, e a caro prezzo.

Andai da Giona o Peter Coffin che fosse, e quando gli dissi che volevo una camera, rispose che la casa era piena. Ma “Fermo!”  aggiunse toccandosi la fronte: “Vi va di condividere la coperta con un ramponiere? M’immagino che salpiate a balene, e così fareste bene ad abituarvi a queste cose.” Accettai molto a malincuore in quella serata di freddo islandese. Nessun fuoco era acceso da nessuna parte, nulla tranne due deprimenti candele di sego, ciascuna ravvolta nel suo sudario: ci saremmo contentati di abbottonarci i giubboni e accostare alle labbra tazze di tè bollente con le dita intirizzite. Per buona sorte la cena fu delle più sostanziose: non soltanto carne con patate, ma gnocchi, dio buono, dico gnocchi da cena.

Finita la cena, non sapendo che fare, mi misi a far da spettatore.

Con gran fracasso era entrata la ciurma dell’Orca. I marinai, infagottati in pelosi giacconi da guardia, mettevano i piedi a terra dopo un viaggio di tre anni. Il vecchio Giona cominciò a officiare il suo ministero e tutti i bicchieri si riempirono fino all’orlo: mesceva gin e melassa che pareva bitume per il catarro, e tutto il suo arsenale di intingoli. Subito le bevande fecero il loro effetto e i marinai selvatici cominciarono a caracollare rumorosamente per lo stanzone.  Solo un uomo stava in disparte e destò subito il mio interesse. Era alto più di sei piedi con spalle imponenti e un petto come una cassa d’ormeggio; lo sguardo era fosco e riarso, i denti abbaglianti. Ombre profonde gli fluttuavano negli occhi come ricordi che parevano non rallegrarlo troppo. Quando il chiasso raggiunse il colmo, l’uomo se la svignò e non ne seppi altro finché non me lo ritrovai imbarcato sulla mia stessa nave. Dovevano aver simpatia per lui perché tutti, urlando Bulkington, dov’è Bulkington, uscirono a precipizio per dargli la caccia.

La stanza parve piombata in un silenzio irreale.

“Padrone! – dico- ma che razza di tipo è il mio compagno di letto che rientra così tardi?” Era già quasi mezzanotte.

Giona ridacchiò divertito: “Stanotte non riesco a capire che diavolo lo trattenga così tardi, a meno che, può anche darsi, non gli riesca di vendere la testa. “Di vendere la testa? Cos’è questa storia?” Cominciavo ad arrabbiarmi. “Sì, proprio vendere la testa, – disse il padrone – e io gli ho detto che non l’avrebbe potuta vendere perché il mercato è pieno.” “Pieno di che?”, gridai. “Di teste, diamine: non ci sono forse troppe teste al mondo?!” “Smettila con queste favole, non sono mica uno stupido”, dissi con freddezza. “Ma state tranquillo, state tranquillo”, rispose. “Questo ramponiere che vi ho detto è arrivato adesso dai Mari del Sud dove ha comprato un lotto di teste neozelandesi imbalsamate (sono un bell’articolo di curiosità, sapete) e le ha vendute tutte tranne una, che è quella che sta cercando di vendere stanotte, perché domani è domenica e non sarebbe bello vendere teste umane per le strade mentre la gente va in chiesa. Stava per farlo domenica scorsa, ma l’ho fermato io proprio mentre usciva dalla porta con quattro teste infilate in uno spago che parevano una fila di cipolle”. “Credetemi, padrone, quel ramponiere è un individuo pericoloso”. “Paga regolarmente.” fu la risposta-. “È maledettamente tardi, fareste meglio a dare un colpo di coda alle paure. È un bel letto: Sall ed io ci abbiamo dormito la notte delle nozze”.

Giona mi portò in una stanzetta fredda come un’ostrica ma fornita di un letto spettacoloso che quasi potevano starci comodi quattro ramponieri. Mi sedetti sulla sponda; a disagio, incominciai a togliermi la giubba, poi la giacca e rimasi in maniche di camicia. Ma, sentendo un gran freddo, alla fine mi buttai nel letto affidandomi a Dio. Ero sul punto di prendere il largo nel regno dei sogni quando udii un passo pesante nel corridoio e vidi un barlume filtrare nella stanza sotto la porta. “Che Dio mi salvi, -pensai- questo dev’essere il ramponiere, l’infernale venditore di teste”. Rimasi perfettamente immobile quando lui entrò senza notarmi. Ero tutto ansioso di vedergli la faccia, ma quello la tenne rivolta dall’altra parte per un bel po’, mentre si dava da fare a slacciare la bocca del sacco. Alla fine si volse e, numi del cielo, che spettacolo! Era una faccia di un colore rossastro, gialliccio, tutta stampata a riquadri nerastri. Ecco, è proprio com’io pensavo, un compagno terribile: ha preso parte a una rissa, è stato massacrato con ferite spaventose e ora vien qua, arriva adesso dal chirurgo.

Ricordai la storia di un bianco, baleniere anche lui, che, capitando tra i cannibali, era stato tatuato. Ma cosa pensare della carnagione inumana che stava tutt’intorno ai riquadri dei tatuaggi? Aprì il sacco e ne cavò fuori una specie di ascia da guerra, afferrò la testa neozelandese, che era una roba da vomitare, e la mise nel sacco. Si tolse il cappello, un cappello nuovo di castoro, ed io fui lì lì per gettare un urlo alla nuova sorpresa. Sulla testa, quell’uomo non aveva capelli o, almeno, capelli che valga la pena di parlarne; nulla, tranne un piccolo ciuffo sul cocuzzolo, attorcigliato verso la fronte. La testa calva e rossastra appariva ora in tutto simile a un teschio ammuffito.

Intanto continuava l’operazione di spogliarsi e alla fine mise in mostra il torace e le braccia. Com’è vero che io son vivo, queste sue parti nascoste erano tutte quadrettate degli stessi scacchi che aveva in faccia; la schiena, pure, era tutta con gli stessi riquadri scuri; pareva che l’uomo fosse stato in una Guerra dei Trent’anni e ne uscisse allora con una camicia di cerotti. Di più, persino le gambe erano segnate, quasi che una banda di rane verdi-scure vi corressero come su per i tronchi di giovani palme: doveva essere un abominevole selvaggio imbarcato su una baleniera nei Mari del Sud e poi deposto in questa terra di cristiani. Rabbrividii a pensarci. Un venditore di teste, addirittura: magari le teste dei suoi fratelli. Avrebbe potuto piacergli la mia … numi del cielo! Guarda che mannaia ha li a terra! Non ebbi neppure il tempo di riprendermi dallo spavento che il selvaggio si mise a fare qualcosa che fissò totalmente la mia attenzione. Si avvicinò al pesante gabbano, o cappotto o corazza, che aveva prima posato su una sedia, frugò nelle tasche e ne trasse una curiosa figuretta deforme, con una gobba sulla schiena e dell’esatto colore di un neonato congolese di tre giorni. Ricordando le teste imbalsamate, con sgomento quasi pensai che fosse un vero bambino. Il selvaggio andò verso il camino, prese due manciate di trucioli dalla tasca del gabbano e li depose accuratamente dinanzi all’idolo; poi, mettendovi in cima un pezzetto di galletta di mare e accostandovi la fiamma del lume, accese i trucioli in un fuoco sacrificale, poi, dopo molti tentativi rapidi tra la fiamma e più rapidi ritiri delle dita, tirò fuori la galletta abbrustolita e ne fece un’offerta cortese al suo piccolo negro. Tutti questi gesti strani erano accompagnati da suoni gutturali ancor più strani, preghiera, cantilena o salmodia pagana, e intanto storceva la faccia nel modo più innaturale. Finalmente, spegnendo il fuoco, tolse con pochissime cerimonie l’idolo e lo rinchiuse di nuovo nella tasca del gabbano, quasi con noncuranza. Accostò poi l’ascia da guerra al camino e l’accese come una grande pipa perché tale era la sua doppia funzione. Tirò alcune boccate poi spense la luce e, senza mollare la strana pipa, si tuffò nel letto ed io d’istinto strillai. Il selvaggio cannibale con grugniti di stupore, cominciò a tastarmi mentre cercavo di rotolare fuori dal letto!

“Chi diavolo voi? – disse alla fine. – Non parlare voi? porco diavolo, io uccido”. E l’ascia fumante cominciò a rotearmi intorno nel buio.

“Peter Coffin! per amor di Dio – urlai – Padrone! Aiuto! Coffin! Angeli del Cielo! salvatemi! “

“Parlare! Dire me chi è, o io uccido, porco diavolo!”

Ma, grazie a Dio, in quel momento arrivò Coffin col lume in mano, e io, balzando dal letto, gli corsi incontro.

“Non abbiate paura. disse quello ghignando. “Quiqueg, qui presente non vi torcerebbe un capello”.

“Piantatela di sogghignare.” urlai. “Perché non mi avete detto che quel ramponiere d’inferno era un cannibale?”

“Credevo che lo sapeste, non vi ho forse detto che andava a vendere teste in città? Ma tornate a letto, date un colpo di coda, lupo di mare!” “Quiqueg, badate, voi capir me, io capir voi: quest’uomo dorme con voi: voi capir me?” “Me capir tutto.” grugnì Quiqueg, pipando e sedendosi sul letto.

“Voi dentro.” aggiunse facendomi cenno con l’ascia e gettando gli abiti da una parte. In realtà fece questo in un modo non soltanto cortese, ma veramente garbato e benevolo. lo rimasi a guardarlo un momento: in fondo, in fondo con tutti quei tatuaggi era nell’insieme uno schietto e piacente cannibale. “Che cos’è tutto questo baccano che ho fatto?” pensai tra me e me. “Costui è una creatura umana, proprio come sono io e ha proprio altrettanto motivo di temere me, com’io ho di temere lui. Meglio dormire con un cannibale sobrio che con un cristiano ubriaco.”

Non ho mai dormito meglio in vita mia. Al risveglio mi trovai il braccio istoriato di Quiqueg attorno al collo quasi un involontario abbraccio in un modo affettuoso e tenero. Si sarebbe potuto pensare che ero sua moglie. Ci volle del bello e del buono a svegliarlo e a farlo rinvenire dallo stupore. Si vestì a pezzi, per prima cosa mettendosi il cappello. I calzoni li mise solo dopo essersi rasato con il suo arpione affilatissimo maneggiato come una lama Rogers. Avrei imparato di quale acciaio di prim’ordine è fatta la testa d’un arpione e di come vengano sempre tenute straordinariamente affilate le sue due lunghe lame diritte.

Uscì infine avvolto nel suo grande gabbano da pilota brandendo il rampone come fosse un bastone da maresciallo.

CAPITOLI V E VI
LA COLAZIONE E LE STRADE DI NEW BEDFORD
Ma gli animi nella locanda erano sereni nonostante che Peter Coffin mi avesse burlato non poco sulla faccenda del mio compagno di letto. Comunque, una buona risata è una magnifica cosa anche se troppo rara, e questo è il vero peccato.

Perciò, se un uomo ha la fortuna di avere la capacità di offrire a un altro il modo per farsi una bella risata, non esiti, ma si disponga con allegria ad adoperarsi a quello scopo. E chi porta addosso questa generosa esca per le risate, è un uomo che vale di più di quanto non si pensi.

Nel bar erano quasi tutti balenieri; capitani, secondi e terzi ufficiali di bordo, carpentieri, bottai, fabbri, ramponieri e nostromi: una congrega di uomini muscolosi, bruciati dal sole, con barbe cespugliose, una banda di individui pelosi che portavano tutti come abito da passeggio la giubba da marinaio.

Si capiva a prima vista da quanto tempo ognuno di loro fosse stato imbarcato anche da come camminava a disagio con stivali fatti di umido cuoio di vacca bagnato e raggrinzito e probabilmente neppure fatti su misura.

Sembravano impacciati quei lupi di mare che avevano abbordato e battagliato contro grandi balene con coraggio e baldanza ma, lì seduti tutti al tavolo senza batter ciglio, sembravano guardarsi l’un l’altro imbarazzati come non si fossero mai allontanati da non so quale ovile delle Montagne Verdi del Vermont o simili ad orsi pieni di pudore.

Quiqueg stava in mezzo a loro, anzi, a capotavola, forse per caso, e, con il suo arpione ben allungato sul tavolaccio, arraffava bistecche al sangue.

Per strada a New Bedford non si vedono solo marinai ma cannibali autentici e selvaggi delle isole Figi e Tonga, di Erromango nelle Nuove Ebridi, e altri ancora da luoghi sperduti negli arcipelaghi come i pananghiani e brighgiani ma anche molti dandy eleganti o pacchiani, decisamente ridicoli in quel contesto. Le case sono tutte figlie dell’attività baleniera con giardini e parchi opulenti e pieni di fiori e sempre con emblemi fatti di arpioni. Si può dire che sono venute, anzi sono state arpionate, dal fondo del mare da uomini che hanno navigato negli oceani.

Dicono che i padri diano in dote alle figlie delle balene e spartiscano i patrimoni ai nipoti con un po’ di focene a testa.

Le donne fioriscono come le loro rose e, mi dicono, che le giovani emanano un tale profumo che i loro innamorati marini ne sentono la dolcezza a miglia di distanza dalla costa come se si avvicinassero alle odorose isole Molucche e non alle sabbie puritane.

CAP VII-IX
LA CAPPELLA DEL BALENIERE E LA PREDICA DI PADRE MAPPLE
In New Bedford c’è la Cappella del Baleniere e pochi sono i pescatori che, sul punto di partire per l’Oceano Indiano o il Pacifico, mancano di farle una visita domenicale. Di certo non mancai io.

Mi aprii la strada lottando contro un’ostinata bufera.  Entrando trovai un gruppo sparso di marinai, mogli e vedove di marinai. Il cappellano non era ancora arrivato. Regnava un silenzio oppressivo. Ogni fedele pareva sedere apposta lontano dagli altri e queste isole di uomini e di donne senza parola erano lì a fissare con ostinazione varie lapidi marmoree orlate di nero, murate nelle pareti ai due lati del pulpito. Tre di esse dicevano più o meno così:

CONSACRATA ALLA MEMORIA
DI
JOHN TALBOT
CHE A DICIOTT’ANNI SI PERDÉ NEL MARE
VICINO ALL’ISOLA DELLA DESOLAZIONE
AL LARGO DELLA PATAGONIA
IL 10 NOVEMBRE 1836
QUESTA LAPIDE ALLA MEMORIA
LA SORELLA POSE

CONSACRATA ALLA MEMORIA
DI
ROBERT LONG WILLIS ELLERY
NATHAN COLEMAN WALTER CANNY
SETH MACY E SAMUEL GLEIG
FORMANTI L’EQUIPAGGIO D’UNA DELLE LANCE
DELLA NAVE «ELISA»
CHE VENNERO TRASCINATE AL LARGO DA UNA BALENA
NELLE ACQUE DI CACCIA DEL PACIFICO
IL 31 DICEMBRE 1839
QUESTA LAPIDE I MARINAI SOPRAVVISSUTI
POSERO

CONSACRATA ALLA MEMORIA
DEL FU
CAPITANO EZEKIEL HARDY
CHE IN PRORA ALLA LANCIA
VENNE UCCISO DA UN CAPODOGLIO
SULLA COSTA DEL GIAPPONE
IL 3 AGOSTO 1833
QUESTA LAPIDE ALLA MEMORIA
LA VEDOVA POSE

Che vuoto amaro in quelle lapidi che non ricoprono ceneri! Che disperazione in quelle scritte immutabili!

“Com’è –mi chiedevo – che noi ci rifiutiamo di ricevere conforto per la perdita delle persone care e insieme affermiamo che esse vivono nella beatitudine eterna? La fede, certo è come uno sciacallo che si nutre in mezzo alle tombe e persino da questi dubbi cadaverici trae la sua speranza più vitale. Sì, lsmaele, ti può toccare lo stesso destino dei balenieri che ti hanno preceduto. C’è la morte di mezzo in questa impresa della caccia, l’indicibile, fulminea spedizione di un uomo nell’Eternità.

E con questo? lo credo che abbiamo preso un grosso abbaglio in questa faccenda della Vita e della Morte. Credo che ciò che chiamano la mia ombra sulla terra sia la mia vera sostanza. Credo che nel guardare alle cose spirituali noi siamo come ostriche che osservano il sole attraverso l’acqua e ritengono quell’acqua densa la più fine delle atmosfere. Penso che il mio corpo sia la feccia del mio essere migliore. Se lo prenda quindi chi vuole. Evviva dunque Nantucket, e mi spezzino pure la lancia e mi sfondino la pancia, perché di sfondarmi l’anima neppure Giove è capace”.

Non era molto che stavo seduto quando entrò un uomo di una certa venerabile prestanza; appena si richiuse alle sue spalle la porta sbattuta dalla bufera, un rispettoso brusio percorse la folla. Di certo era il famoso padre Mapple, così chiamato dai balenieri tra i quali era popolarissimo. In giovinezza, egli era stato marinaio e ramponiere, ma ormai da molti anni dedicava la sua vita al ministero sacerdotale. Padre Mapple era nell’inverno gagliardo di una sana vecchiaia, quella specie di vecchiaia che sembra voler sfociare in una seconda fiorente giovinezza, poiché da tutte le pieghe delle rughe affiorano teneri segni di un nuovo sboccio imminente: il verde della primavera che sbuca perfino di sotto alla neve di febbraio.

Padre Mapple si avvicinò tranquillo al pulpito.

Come la maggior parte dei pulpiti all’antica, anche questo era molto alto, e poiché una scala normale avrebbe, per l’angolazione col pavimento, diminuito notevolmente la già ristretta superficie della cappella, l’architetto, pare per suggerimento dello stesso Mapple, aveva costruito il pulpito senza scala, usando in sostituzione una scaletta di corda con i gradini di legno che cadeva a perpendicolo “fuoribanda”, come quelle che si usano per salire a bordo d’una nave in alto mare. Padre Mapple levò gli occhi in alto e poi con destrezza marinaresca salì afferrandosi ai pomelli ornamentali dei corrimani come salisse sulla coffa di maestra della sua nave. Arrivato in cima, tirò su la scaletta come per isolarsi in una sua piccola, inespugnabile Quebec.

La scala di corda non era l’unica nota paradossale del posto; anche il pulpito portava tracce del gusto marino. La sua fronte a pannelli era fatta a somiglianza di una prora e il grande libro della Sacra Bibbia era appoggiato su una voluta sporgente, simile al rostro a violino di una nave.

Mi misi un poco a riflettere sulla stranezza di questi particolari. Non potevo credere che Padre Mapple avesse voluto ricorrere a trucchi da palcoscenico. Ma poi compresi: il pulpito è come la prua che deve resistere al primo urto, tutto il resto vien dopo; è dalla prua che si può scorgere per primi la tempesta scatenata dall’ira improvvisa di Dio; è di lì che si invoca il Dio delle brezze perché mandi venti favorevoli. Come trovare qualcosa più ricco di significato?

Padre Mapple s’alzò e, con un tono pacato ordinò alla folla sparsa di riunirsi: “Banda a dritta, banda a sinistra, accostate tutti a mezzanave.”

Ci fu un sommesso trapestio di pesanti stivali di mare tra i banchi e un fruscio più leggero di scarpe femminili, poi tutto fu di nuovo tranquillo e ogni sguardo fu fisso sul predicatore.

Egli s’arrestò un attimo, poi, affacciandosi dalla prora del pulpito, incrociò le grosse mani brune sul petto, levò gli occhi chiusi al cielo, e profferì una preghiera così profondamente devota che pareva inginocchiato a pregare dal fondo dell’oceano.

All’improvviso esplose con una voce esultante e gioiosa: “Amati compagni, prendete l’ultimo verso del primo capitolo di Giona: «E Dio aveva preparato un gran pesce per inghiottire Giona». Quale feconda lezione è per noi la parola di questo profeta! Che gran cosa è il cantico dentro il ventre del pesce! Ma che cos’è la lezione che ci dà il libro di Giona? Compagni, è una lezione per noi tutti come peccatori e una per me come pilota di Dio. In quanto peccatori è una lezione per tutti, perché è la storia del peccato, della durezza di cuore, delle paure improvvise, del castigo, del pentimento e finalmente della liberazione e della felicità di Giona. Come ogni peccato dell’uomo, il peccato del figlio di Amittai stava nella sua disubbidienza cosciente al comando di Dio. Non importa, ora, che cosa fosse quel comando o come impartito: era un comando ch’egli trovò difficile da seguire. Ma tutte le cose che Iddio vuole che noi facciamo, sono difficili per noi, ricordatelo. E se ubbidiamo a Dio, noi dobbiamo disubbidire a noi stessi, ed è in questo che consiste la difficoltà di ubbidire a Dio. Con addosso questo peccato della disubbidienza, Giona insulta ancor di più il Signore cercando di sfuggirgli. Egli crede, imbarcandosi, che una nave fatta da uomini lo possa condurre in paesi dove non regni Dio, ma soltanto i capitani della terra. Se ne va in giro come un ladro per i moli di Joppa, cercando una nave diretta a Tarsis, guardato da tutti con sospetto. È a tutti chiaro che sta scappando: non ha cappello, valigia o sacca da viaggio, non ha amici che lo accompagnino alla banchina per dirgli addio. Giona si presenta al capitano della nave per Tarsis. Ora, compagni, il capitano di Giona era uno di quegli uomini sagaci che capiscono subito se uno è colpevole, ma per la loro cupidigia denunciano solo i poveri su questa terra. Giona pagò il prezzo del viaggio e s’imbarcò con i marinai che prima l’avevano cercato tra i parricidi, tra gli assassini e tra gli evasi da Sodomia, tra i ricercati scritti sui cartelli del porto. La strada era stata spianata con l’oro delle monete. “Mostratemi la cabina: –dice Giona al capitano- sono stanco del viaggio. Ho bisogno di riposo.” Giona si getta vestito dentro la cuccetta e trova che il soffitto della piccola cabina gli tocca quasi la fronte. Quando la nave sbanda per il carico, la lucerna pensile resta diritta e fa apparire sbilenco il vano. Atterrito Giona geme: “Oh, così è dentro di me la mia coscienza: brucia diritta verso l’alto, ma le stanze dell’anima sono tutte storte”

E intanto è salita la marea, la nave leva gli ormeggi e dalla banchina deserta prende il mare alla volta di Tarsis. Quella nave, amici miei, fu il primo dei velieri da contrabbando che si conosca! E la merce fu Giona.

Ma il mare si ribella: esso non porterà il carico maledetto. Si scatena un tremendo fortunale e la nave si inclina e sta per cedere ed invano si gettano a mare casse, balle e giare, che saltano dalle murate con fracasso. Gli uomini urlano, ma Giona nella cuccetta tra le coste della nave dorme il suo sonno osceno. Il capitano atterrito viene a cercarlo e gli grida nell’orecchio inerte: “Che cosa credi di fare, tu che dormi!? Su, levati!” Giona si alza barcollante, sale in coperta, s’afferra a una sartia per guardare il mare. Ma, all’istante un maroso felino gli balza addosso scavalcando le murate e ondate su ondate si susseguono e saltano nella nave e corrono muggendo a poppa e a prora, mentre la luna bianca mostra i burroni di vertigine nel buio del cielo. Giona atterrito vede il bompresso alzato puntare dritto in alto ma tosto abbattersi all’ingiù nell’abisso sconvolto. I timori dei marinai si fanno certezza; assaltano il fuggiasco con mille domande. “Sono un ebreo.” -egli grida – Temo il Signore Iddio del Cielo, che ha fatto il mare e la terra!” “Lo temi Giona? Certo avevi ragione di temerlo.” –dicono i marinai, – ed egli di colpo si mette a fare una confessione completa.

Ma Giona non implora ancora la misericordia di Dio e grida di buttarlo a mare perché sa che per causa sua li ha assaliti quella grande tempesta. Presi da pietà, i marinai gli voltano le spalle e cercano ancora di salvare la nave in altro modo. Ma tutto è inutile, la burrasca indignata urla più forte e allora i marinai afferrano Giona e con una mano levata supplice a Dio, con l’altra si accingono a buttarlo in mare, non senza riluttanza.

E ora vedete Giona sollevato come un’ancora, e lasciato cadere nelle acque tumultuose; istantaneamente una bonaccia come d’olio esce da oriente ed ecco, il mare è tranquillo, perché Giona si porta la burrasca giù sul fondo lasciandosi dietro l’acqua calma. Giona scende nel cuore turbinoso di uno sconvolgimento così folle ch’egli appena s’accorge dell’istante in cui cade nelle mascelle spalancate che l’attendono. La balena fa scattare i suoi denti d’avorio, come tanti bianchi chiavistelli sulla sua prigione. Allora Giona pregò il Signore dal ventre del pesce. E ora ascoltate la preghiera e imparate una grave lezione: peccatore com’è, Giona non piange e non si lamenta per ottenere direttamente la salvezza; egli sente che la tremenda punizione è meritata. Lascia la sua liberazione a Dio, contentandosi di questo che, malgrado tutte le pene e afflizioni, egli possa ancora vedere il Suo santo Tempio. E questo, compagni, è pentimento sincero e colmo di fede, che non invoca il perdono, ma che è grato del castigo. E quanto piacesse a Dio questa condotta in Giona lo dimostra la sua liberazione dalla balena e dal mare. Compagni, io non vi metto Giona innanzi perché lo imitiate nel peccato, ma ve lo metto innanzi come modello di pentimento. Non peccate, ma se vi accade di peccare, cercate di pentirvene come Giona.”

Mentre diceva queste parole gli ululati della bufera che infuriava lì fuori parevano dare al predicatore più forza. La persona era scossa come se gli elementi si azzuffassero attorno a lui. Ma infine la calma s’impose nel suo aspetto mentre in silenzio tornava a voltare le pagine del Libro; e, alla fine, stando con gli occhi chiusi, fermo per un attimo, parve comunicare solo con Dio e con se stesso. Poi si sporse di nuovo verso il pubblico e disse: “Come sarei lieto di scendere da questa coffa e sedere là sui boccaporti dove sedete voi e ascoltare qualcuno leggermi quell’altra e più terribile lezione che Giona insegna a me come pilota del Dio vivente. Ma aggiungo due parole alla vicenda di Giona. Essendo Giona profeta consacrato e annunciatore di verità, quelle verità che erano sgradite alle orecchie di un’empia Ninive, ebbene Giona, per timore dell’ostilità che avrebbe provocato con le sue parole, abbandonò la sua missione e tentò di sfuggire al suo dovere e al suo Dio imbarcandosi a Joppa. Ma Dio è dappertutto e a Tarsis Giona non arrivò mai. Come abbiamo già visto, Dio gli venne addosso con la balena e lo risucchiò dentro gli abissi viventi della condanna, e lo trasse “nel mezzo dei mari”, dove le avidità vorticose lo risucchiarono alla profondità di diecimila braccia. Le alghe gli avvilupparono la testa e tutte le acque del dolore rotolarono sopra di lui. Eppure anche allora, oltre la portata di qualsiasi scandaglio, dal ventre dell’inferno, quando la balena si posò sull’ossatura più profonda dell’oceano, anche allora Dio sentì il grido del profeta inabissato e pentito. E Dio parlò al pesce, e dal freddo indicibile e dalle oscurità marine la balena risalì verso il sole caldo e piacevole e verso tutte le delizie dell’aria e della terra; e «vomitò Giona sulla terra asciutta», dove la parola del Signore arrivò una seconda volta. E Giona, livido e ammaccato, le orecchie come due conchiglie marine ancora piene del mormorio infinito dell’oceano, fece la volontà dell’Onnipotente. E qual era questa volontà, compagni? Predicare la Verità contro la Falsità! Ecco qual’era!”

“Eterna, smisurata gioia a chi, giungendo al riposo, potrà dire con l’ultimo respiro: “O mio Padre! ch’io conosco specialmente per la tua sferza, io muoio, mortale o immortale. Ho combattuto per essere Tuo più che di questo mondo o di me stesso. Eppure ciò non è nulla: lascio l’eternità a Te solo, poiché che cosa è mai l’uomo perché egli debba vivere a lungo come il suo Dio?”.

Egli non disse di più, ma lentamente impartì una benedizione, si coprì il viso con le mani e rimase così, inginocchiato, finché tutti non furono usciti lasciandolo là solo.

CAP X-XIII
DA BEBFORD A NANTUCHET COL BATTELLO “IL MUSCHIO”
Ritornando dalla Cappella alla locanda del Baleniere, trovai Quiqueg tutto solo, essendo lui rientrato un poco prima della benedizione. Stava seduto su una panca davanti al fuoco con i piedi sul focolare; si teneva accanto al volto il suo idoletto negro, ne fissava il volto e, con un coltello a serramanico, gli raschiava con delicatezza il naso canterellando un ritornello pagano. Ma, vistosi osservato, poggiò la statuetta, prese dal tavolo un librone e cominciò a contarne le pagine con grande attenzione. Le contava a gruppi di cinquanta forse perché il cinquanta era il numero più alto che conoscesse.

Rimasi seduto a guardarlo con molto interesse. Selvaggio com’era, aveva tuttavia nella fisionomia qualcosa che non dispiaceva. L’anima non si può nascondere. Sotto quei suoi mostruosi tatuaggi mi sembrava di vedere un cuore semplice e onesto; e nei suoi grandi e profondi occhi neri, vivaci e pieni di coraggio, sembravano esserci i segni di uno spirito che avrebbe sfidato mille diavoli. Il suo aspetto era quello di un uomo che non s’è mai umiliato e che non ha mai avuto creditori. Potrà sembrare ridicolo, ma la sua testa mi ricordava quella del generale Washington ritratto nei busti popolari. Quiqueg era lo sviluppo cannibalesco di George Washington.

Avevo notato che Quiqueg non parlava mai o pochissimo con gli altri marinai della locanda e ciononostante sembrava perfettamente a suo agio. Mentre sedevo lì la stanza si era spopolata: le ombre e i fantasmi della sera si raccoglievano attorno alle finestre e si chinavano a osservare noi due soli e muti e io cominciai a provare strane sensazioni. Il mio cuore a pezzi e la mia mano furiosa non si rivoltavano più contro un mondo di lupi. Questo selvaggio me lo aveva redento. “Voglio provare ad avere un amico pagano, – pensai- dal momento che la bontà cristiana si è dimostrata soltanto vuota cortesia.”

Sfogliammo assieme il librone e cercai di spiegargli la stampa e il significato delle illustrazioni. Accese la sua fiera pipa e tirammo assieme delle boccate, pacatamente.

Dopo cena salimmo nella nostra stanza. Egli mi regalò la testa imbalsamata e, presi da sotto il sacchetto del tabacco trenta dollari, li divise in due mucchi uguali, ne spinse uno verso di me e disse che era mio nonostante io protestassi con tutte le mie forze. Tirò quindi fuori il suo idolo per le devozioni serali. Da certi segni mi pareva di capire che ci teneva molto che io partecipassi alla cerimonia.

Ero un buon cristiano, nato e cresciuto nel seno dell’infallibile Chiesa Presbiteriana. Come potevo unirmi a questo selvaggio nell’adorazione di un pezzo di legno? Ma poi mi dissi: “Credi davvero, Ismaele, che il Dio magnanimo del cielo e della terra possa essere geloso di un insignificante pezzetto di legno? È mai possibile una cosa simile? E allora cos’è il culto? Fare la volontà di Dio, ovvero fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te. E Quiqueg è il mio prossimo,” – conclusi.

Insieme a lui feci offerte al piccolo idolo e gli baciai il naso.

E poi andammo a letto in pace. Ma non ci addormentammo subito. Quale posto migliore di un letto per le confidenze fra amici? Quiqueg si mise a parlare dell’isola dove era nato e io, curioso, lo pregai di continuare il racconto. A quel tempo lo capivo appena, ma più tardi mi sarei abituato al suo modo spezzato di parlare.

Quiqueg era nativo di Rokovoko, un’isola lontanissima del Sudovest, non segnata in nessuna carta perché i luoghi veri non lo sono mai.

Quand’era un ragazzetto selvaggio, faceva il diavolo per i boschi della patria con addosso un cencio d’erba, seguito dalle capre che cercavano di brucarlo come se fosse un alberello verde; ma già allora, nel suo cuore ambizioso, covava un desiderio irresistibile: vedere qualcosa della Cristianità più da vicino e non solo come veniva descritta da un paio di balenieri.

Suo padre era un Gran Capo, un Re; suo zio, un Gran Sacerdote, e poteva vantare zie sposate a guerrieri invincibili.

Un giorno una nave di Sag Harbour fece sosta nella baia di suo padre, e Quiqueg cercò un passaggio per terre cristiane, ma il capitano gli oppose un rifiuto ferreo. Allora egli prese una canoa e, solo, remò fino ad uno stretto lontano da cui la nave doveva necessariamente passare. Quando la nave gli scivolò davanti in un lampo raggiunse la murata, con una pedata affondò la sua imbarcazione e con un salto acrobatico si issò sul ponte. Inutili le minacce del capitano: Quiqueg era figlio di re e non si mosse. Lo misero giù fra i marinai e ne fecero un baleniere. Ma come lo Zar Pietro, che accettava di sgobbare nei cantieri delle città straniere, Quiqueg non sdegnò i lavori più umili e vergognosi. In fondo in fondo, egli mi disse, lo spingeva un desiderio: imparare dai cristiani le arti con cui rendere il suo popolo più felice ancora, e migliore. Ma, ahimè! le maniere dei balenieri lo convinsero presto che anche i cristiani potevano essere miserabili e malvagi, infinitamente di più che non tutti i pagani di suo padre.

Aggiunse che temeva che il Cristianesimo, o piuttosto i cristiani, l’avessero reso indegno di salire al trono, puro e immacolato, dei trenta re pagani che l’avevano preceduto. Ma presto, egli disse, sarebbe tornato, non appena se ne fosse sentito di nuovo degno. Per il momento, comunque, si proponeva di navigare e scorazzare per tutti e quattro gli oceani. Avevano fatto di lui un ramponiere e quel ferro aguzzo gli teneva ora le veci dello scettro.

Lo informai della mia intenzione di salpare da Nantucket, come dal porto più promettente per prendere a bordo un baleniere avventuroso. Egli subito decise di accompagnarmi in quell’isola e di ingaggiarsi sul mio stesso bastimento.

L’indomani mattina prendemmo a prestito una carriola e, caricandovi le nostre cose, compreso il mio misero sacco da viaggio, la sacca di tela e la branda di Quiqueg, ce ne partimmo alla volta del “Muschio”, il piccolo brigantino-goletta in servizio per Nantucket.

Il “Muschio”, issate le vele, scivolò giù per l’Acushnet. New Bedford sorgeva a terrazzi di strade, coi suoi alberi ghiacciati tutti smaglianti nell’aria fredda e limpida. Grandi colline e montagne di botti su botti erano ammonticchiate sui suoi scali e baleniere che avevano girato tutto il mondo stavano ormeggiate a fianco a fianco, finalmente in silenzio e sicure. Da altre navi veniva un rumore di carpentieri e di bottai che si mescolava a quello dei fuochi e delle fornaci per sciogliere la pece, tutti segni, questi di nuove traversate, di viaggi lunghi e pericolosissimi, un primo, un secondo, un terzo viaggio e così via senza fine. Tale è la natura interminabile e forse intollerabile di ogni sforzo umano.

Guadagnando il mare più aperto, la brezza corroborante rinforzò e il piccolo “Muschio” scosse la viva schiuma dalla prora come un giovane puledro i suoi sbruffi. Come aspirai quell’aria frizzante! come sdegnai la terra limitata, quella strada comune tutta segnata dalle impronte di tacchi e di zoccoli servili e mi volsi a guardare con ammirazione la magnanimità del mare che non ammette ricordi!

Alla stessa fontana schiumante Quiqueg pareva bere e barcollare con me.

CAPITOLO XIV
NANTUCKET
Un povero diavolo di vice-vice bibliotecario ha racimolato negli anni qualsiasi allusione alle balene che potesse scovare in ogni sorta di libro sacro e profano. Io le citerò di quando in quando augurando a quell’uomo senza speranza e ingiallito che possa trovare accoglienza, ne sono certo, nei sette piani del cielo e lassù brindare con bicchieri di cristallo infrangibile.

Per Nantucket il vice-vice mi ha fornito questa citazione dal discorso di Daniel Webster al Senato degli Stati Uniti a proposito della domanda per la costruzione di una barriera frangi-onde nel 1828:

“Nantucket -dice il signor Webster- costituisce una parte peculiare e notevolissima dell’interesse nazionale. Ha un popolo di otto o novemila persone, che vivono sul mare, e che danno un contributo molto grande ogni anno alla ricchezza nazionale per mezzo della più audace e perseverante delle industrie.”

Nantucket! Prendete la carta geografica e cercatela. Guardate come se ne sta in un angolino del mondo, là al largo da ogni costa, più solitaria del faro di Eddystone in mezzo alla Manica; una semplice collina, una barra di sabbia, tutta spiaggia, senza sfondo. Qualche spiritoso dice che le erbacce là bisogna piantarle perché non crescono naturalmente, che là importano i cardi dal Canada, che un tappo per turare una fessura in un barile bisogna mandarlo a cercare oltremare, che a Nantucket i pezzi di legno vengono portati in giro come i frammenti della vera croce a Roma e ancora che vi si piantano funghi velenosi per avere un po’ d’ombra davanti alle case e che un filo d’erba fa un’oasi e tre una prateria…

Una meravigliosa leggenda dice così. Nei tempi antichi un’aquila piombò sulla costa della New England e portò via tra gli artigli un bambino indiano. Con altissimi pianti, i genitori videro il bimbo scomparire alla vista sulle acque sterminate. Decisero di seguirlo nella stessa direzione. Partendo sulle canoe, dopo una pericolosa traversata scoprirono l’isola e ci trovarono un piccolo cesto d’avorio vuoto: lo scheletro del povero piccolo indiano.

Nessuna meraviglia, quindi, che gli abitanti di Nantucket, nati sopra una spiaggia, si siano dati al mare per trarne da vivere! Dapprima raccolsero granchi e arselle nella sabbia; poi, fattisi più esperti, si spinsero in alto mare a pescare merluzzi; alla fine lanciarono una flotta di grandi navi fino allo stretto di Bering, dichiarando guerra alla più possente massa vivente che sia sopravvissuta al diluvio, la più mostruosa ed enorme fra tutte, l’Himalaya del mare, portento di forza inconscia.

E così questi uomini semplici, divennero eremiti del mare, per scorazzare sulle acque e domare il mondo marino come tanti Alessandri, ripartendosi tra loro l’Atlantico, il Pacifico e l’Indiano.

Soltanto un uomo di Nantucket vive ed esulta lottando nel mare; e lui solo, come dice la Bibbia, vi scende sulle navi, e lo ara da cima a fondo come una sua piantagione privata. Egli vive sul mare come i galli di prateria nella prateria, e scala le onde come i camosci le montagne. Per anni egli ignora la terra, cosicché, quando infine vi ritorna, questa ha per lui il profumo di un altro mondo, più strano di quello della luna per uno che viene dalla terra.

1. Continua.


La traduzione del romanzo di Herman Melville è di Alessandro Macchi. Le fotografie originali sono di Roberto Cavallini.

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