Marinella Petramala
A proposito di “Sette sere"

Borges e la bellezza

Adelphi, a cura di Tommaso Scarano, ripropone i testi di sette lezioni di Jorge Louis Borges dedicate ai temi dell’infinitezza e dell’illusorietà

«Ero molto timido», disse Jorge Luis Borges nel corso di una conferenza parlando di sé stesso bambino, «quasi come adesso». L’attitudine dell’oratore, dunque, non era sua. Eppure la trovò dentro di sé per necessità: sostenitore dell’antiperonismo, nel 1946 perse il lavoro che svolgeva presso la biblioteca Miguel Cané di Buenos Aires e, con esso, uno stipendio fisso.

Sette sere (a cura di Tommaso Scarano, Adelphi, pp. 189, € 14,00) sono le sette conferenze scelte dai simposi svolti a Buenos Aires tra il 1° giugno e il 3 agosto 1977, che il curatore ripropone comparando i testi inclusi nelle Obras completas e le registrazioni audio originali. I temi dell’infinitezza e dell’illusorietà rappresentano il filo rosso della raccolta. A partire dalla Divina Commedia, della quale Borges era un attento lettore e studioso («non conosco altro italiano che quello che mi ha insegnato Dante»). Il senso di illimitatezza del poema scaturisce infatti dalla continua sorpresa suscitata dalla lettura: «La Commedia, che continuiamo a leggere e che continua a sorprenderci, che durerà oltre la nostra vita, ben oltre le nostre veglie e sarà resa più ricca da ogni generazione di lettori».

Così come ne Le mille e una notte – «dire mille notti è dire infinite notti, molte notti, innumerevoli notti» – che negli occidentali accendono la curiosità e il fascino della «coscienza d’Oriente» fatta di geni, lampade, magie e tesori nascosti. Ne L’incubo ritornano la dimensione dell’eternità e l’aspetto illusorio della realtà tipici del sogno, un’opera estetica con un proprio «sapore», prodotto della mente dell’individuo. Ma l’illusione è anche il centro del Buddhismo, nel quale il presente è concepito come il risultato del trascorrere di un tempo smisurato. Non solo una religione ma una «via di salvezza» che invita alla tolleranza e alla non credulità: uno dei presupposti del buddhismo è il mettere in discussione l’esistenza stessa del Buddha. Mistero e ineffabilità si uniscono in Poesia: secondo Borges, il poeta non crea mai ex novo, perché l’invenzione ha in sé la scoperta, il reimpiegare qualcosa che esiste già e che il fruitore ritrova (e ricorda) dentro di sé. La poesia si sente e non si può spiegare (e chi la insegna in realtà non la sente): è un fatto estetico, evidente, ma è anche infinita perché i significati e le interpretazioni di un testo sono tanti quanti sono i lettori. È così che la poesia «accade», essa è in divenire come la vita, come il fiume di Eraclito. Perpetua, poi, è l’intelligenza che crea il mondo, secondo la dottrina cabbalistica, e senza tempo sono i mondi nella cosmogonia gnostica (La cabbala). Innumerevoli, perché in divenire, sono inoltre le circostanze della vita dell’uomo, come la «modesta parziale cecità» dello stesso Borges, un «dono», ereditato dalla sua famiglia, dal quale egli trasse l’occasione per poter approfondire la letteratura inglese delle origini. Ciò che accade all’uomo è per l’uomo uno «strumento» e lui deve servirsene così come l’artista fa con l’argilla (La cecità).

L’autobiografismo unito ai collegamenti eruditi che non spezzano il ritmo ma, anzi, lo incalzano, permea il modus operandi di Borges, nonché la ricerca dell’emozione, proprie del suo essere e definirsi «edonista». Ciò che più conta è sentire la bellezza e trarre da essa qualcosa che si avvicini all’eternità: «La bellezza è dovunque, forse in ogni momento della nostra vita».

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