Roberta Passaghe
A proposito di “Vita di Arturo Amavìs”

Una vita in apnea

Il romanzo d'esordio di Alessandro Serra racconta di mare, solitudine, amicizia, amore e fuga: una esemplare “avventura di formazione”

Mai come nel caso di Vita di Arturo Amavìs (Il Maestrale, 240 pagine, 20 euro), romanzo d’esordio di Alessandro Serra, il detto “immergersi nella lettura” è stato più pregnante. L’architettura della storia del (mancato?) corallaro del titolo è costellata di riferimenti al mondo marino sia, come è giusto aspettarsi, in termini contenutistici, sia in termini retorici. Basti pensare che in una sola pagina ricorrono similitudini come «Rimpicciolendo occhi, naso e orecchie, e lasciando di lui solo una grossa bocca dentata, simile a quella di un capodoglio salito in superficie; Poi si commuove, e trattiene il respiro, come per immergersi nel mare profondo; Tutti bassi e larghi come nasse e più allungata e piatta come quella di una murena». Gli artifici linguistici con cui sono rese le vicende di Arturo restituiscono un universo, il suo, pieno di dubbi, incertezze e insicurezze, in una maniera tale che non si riesce a non provare un’intensa compassione.

Nonostante i ripetuti sforzi per diventare un buon apneista, il nostro è costantemente denigrato dal padre e additato fin dalla nascita come «pesce di fiume! Solo un pesce di fiume», insulto che gli brucia sulla pelle come un marchio a fuoco. Saranno allora gli incoraggiamenti dell’amato nonno Pedro a stemperare un clima familiare altrimenti astioso, incoraggiamenti accompagnati da racconti sulla lontana Sagunto, da cui l’anziano proviene, e sull’Alghero dei primi anni Trenta del Novecento, dove egli approdò in fuga dal regime. Messo in guardia dal padre sull’inettitudine del coetaneo Igor, rampollo della prestigiosa famiglia D’Arriguez che da anni collabora con gli Amavìs, Arturo tuttavia vi stringe, seppur quasi per caso, amicizia – con una morbosità che sfocia volentieri nell’adulazione e nutrendo nei suoi confronti una stima quasi reverenziale: gli sottostà come un autentico iniziato al culto della vita. Igor, infatti, e qui è proprio il caso di dirlo, si atteggia a uomo navigato, condendo con studiate menzogne gli aneddoti che di volta in volta propina al compagno. Quando infine arriva il momento dell’emancipazione, ossia la catarsi che deriva dallo smascheramento delle bugie di Igor, una mutazione potente conduce Arturo a un’improvvisa maturità in una dinamica evolutiva certo cara al romanzo di formazione: quella per cui da subordinati e spettatori inermi si passa a essere padroni della propria esistenza.

L’autoisolamento di Arturo nella rimessa abbandonata del nonno Pedro a Fertilia, avvenuto in seguito a un litigio col padre, richiama alla memoria La tesina di S.V. di Alberto Capitta, dove l’eroe eponimo, col pretesto di inseguire una palla finita fuori campo, si autoisola, anche lui, nei boschi. E dove sta la somiglianza, dirà il lettore attento, considerato che le ragioni che hanno mosso i due non potrebbero essere più diverse? Ebbene, entrambi trovano conforto in una solitudine fatta di piccole gioie (come la banale, ma solo in maniera apparente, occupazione di sistemare la rimessa nel caso di Arturo, e la vecchia locomotiva nel caso di S.V.) e combattono col desiderio di tornare a casa che si fa, in alcuni momenti della giornata, più forte. Per non parlare dell’ansia del domani, che genera un turbinio di pensieri che sembra partorito dallo stesso ingegno.

L’amore cambia, per il giovane Amavìs, le carte in tavola: il desiderio di solitudine si affievolisce e viene soppiantato da un sentimento di appartenenza che apre un varco nel suo cuore. Serra imbastisce un impianto narrativo che non rinuncia alla tradizione; i due amanti si riconoscono l’uno nell’altro e, in maniera forse prevedibile, architettano una fuga che non manca di essere ostacolata da crudeli antagonisti. La chiusa un po’ frettolosa regala un retrogusto amaro che fa desiderare di sapere ancora, di sapere di più di questi due sopravvissuti al destino. Ma del resto il compito di chi legge, quando a scrivere è una buona penna, è anche di colmare con la fantasia quanto è stato lasciato all’immaginazione.


La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.

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