Daniela Matronola
Su "Vita di Cristo e del suo cane randagio”

Il cane di Gesù

Il nuovo romanzo di Vincenzo Pardini è una biografia di Gesù Cristo con una novità inaspettata: la presenza del suo cane. E l'animale diventa il grimaldello per entrare nell'"umanità" del personaggio

Per indovinare il movente che ha spinto Vincenzo Pardini a raccontarci daccapo la storia di Gesù Cristo (Vita di Cristo e del suo cane randagio, Vallecchi, 220 pagine, 18 Euro), forse dobbiamo scegliere la via della favola e del sogno. Non una sola delle due chiavi ma le due chiavi insieme una nell’altra. E la ragione, dopotutto oggettiva, dunque realistica, è che a Gesù Cristo Pardini affianca un cane. Un grosso cane bianco, possente capriccioso vigile, che non lo molla mai, nonostante qualche scappatella predatoria o amatoria. Il dato oggettivo che riguarda il cane, che per tutta la narrazione è l’ombra di Gesù, è l’età. Il cane accompagna Gesù fin da che nasce. E la sua sorte di randagio comincia quando Gesù ascende al cielo. Dunque il cane supera i trent’anni come il suo amato fratello umano.

Un dato sovrumano, direi. E assolutamente non canino.

L’età è il prodigio più clamoroso e realistico nello stesso tempo. Esattamente come la vicenda terrena di Cristo è un prodigio clamoroso eppure, per il suo tratto più lungo e interessante, il più realistico.

Il cane è una presenza costante. Ripeto, è l’ombra del suo fratello umano – che però è anche divino.

Visto che proveniamo da una riflessione sul potere di illuminare le nostre vite che hanno i cani e in genere i nostri compagni domestici, indagato già in Autobiografia dei miei cani da Sandra Petrignani, colpisce anche di più questa presenza finora inedita nella vita del Redentore: viene da pensare che il cane abbia qualche sua arte di redimere anime che finora era rimasta inesplorata.

Il cane si chiama Ebaù. Viene spontaneo pensare che il nome onomatopeicamente alluda al suo abbaio, nel libro spesso raccontato come una delle sue forme di partecipazione alla scena evangelica la più ricorrente, ma non l’unica. Però quel nome richiama alla memoria Esaù, ne sembra anzi un calco. Conosciamo Esaù nella Genesi: gemello di Giacobbe, sono figli di Isacco e Rebecca, nipoti di Abramo. Esaù era venuto alla luce per primo, e Giacobbe (“colui che soppianta”, è il significato del nome, alla lettera “che tiene il tallone del piede”) subito dopo – il quale Giacobbe infatti saprà soffiargli la primogenitura. Esaù porta un nome che vale: rossiccio e peloso, come apparve subito alla nascita, e in questa pelosità effettivamente intrattiene, Esaù, nominalmente, un elemento di somiglianza col cane – ma non so se l’autore, Vincenzo Pardini, abbia ragionato così per attribuire al randagio che ha messo accanto a Gesù il nome, simile, di Ebaù.

Una cosa è certa: Ebaù è una specie di gemello animale di Gesù, proprio come Esaù è stato gemello di Giacobbe. E c’è poi la questione del bianco immacolato del mantello, segnale cromatico di purezza e di naturale innocenza che tuttavia non esclude che il cane Ebaù, come tutti i cani, per esempio, sia coprofilo e coprofago. È una creatura che (come la tigre di William Blake) non tradisce i propri istinti ma obbedisce ad essi tranquillamente, cioè vi aderisce e basta, però ha in comune col suo fratello umano una dote che tradisce un’ascendenza divina – proprio come gli animali, profondamente radicati nella Natura e in comunicazione col Grande Spirito che la informa, mantengono il fiuto e la visione: come Gesù Cristo, Ebaù affronta i cani neri, svelti magri arcigni, che anche dal mondo animale portano l’assalto demoniaco al Figlio dell’Uomo, come lui subisce le insidie di bestie sataniche, come lui fiuta il male quando torna alla carica appena, nel precario equilibrio dinamico tra l’azione evangelica del Signore e la diffidenza o l’ostruzionismo maligno del Sinedrio e dei sacerdoti, si aprono spiragli alle sfide che Satana continua a porre al Figlio di Dio.

Perché il racconto è esattamente questo. Proprio il racconto che conosciamo. In tutto e per tutto.

Ma il cane è un attore mai visto prima. Mai considerato prima. C’è tutto un regno animale che partecipa a questa storia divina, animata anche da altri attori segnaletici. Ad esempio l’asino che porta Gesù in trionfo a Gerusalemme. Un asino bianco, gentile, aggraziato, un’anima generosa. Che salva un dromedario da una morte tanto selvaggia quanto illogica emettendo un raglio in cui risuona qualcosa di umano.

Il cane Ebaù è, come tutti gli animali che si affacciano nel racconto evangelico, una presenza discreta. Direi anzi angelica. È un angelo che precede o affianca il suo straordinario umano. Soprattutto è il compagno elettivo e affine che si muove in profonda comunione con l’umano speciale – che è divino.

Visto in questa sua funzione di accompagnamento, Ebaù potrebbe farci tornare in mente nell’ordine: la scena iniziale di Il Gladiatore ambientata nella gelida contrada nordica dove Massimo Decimo Meridio, in nome del suo unico imperatore, Marco Aurelio, nel 180, schiera le legioni romane prima dell’attacco contro i barbari, i Germani, e tra le fila dei soldati sono schierati anche dei cani, unità cinofila dell’esercito romano, si potrebbe dire, certo soldato anche loro a tutti gli effetti; oppure lo straordinario compagno di Mosé in Exodus, non un cane ma un bambino, un emissario di Dio con cui Mosè discute e protesta come forse con Dio non riuscirebbe a fare, e poi lo segue per buona parte del tragitto quando Mosè trasporta le Tavole della Legge: struggente lo scambio di sguardi e sorrisi, atti di congedo, tra Mosè e il bambino – compagno di viaggio, soprattutto mediatore, l’incarnazione divina compatibile con la sensibilità e la sopportazione di Mosé che è un uomo, dopotutto, è solo un uomo.

Chi è dunque Ebaù, il grande cane bianco?

È un angelo? È un mediatore? È un emissario di Dio? È un vendicatore? È solo un cane?

È una forte presenza, la rappresentazione assoluta della fedeltà in qualunque circostanza. È anche l’unica creatura vigile nell’Orto degli Ulivi nella disgraziata notte di veglia e colloquio del Figlio col Padre, una notte insonne per Ebaù e per Gesù, ma non per gli Apostoli che, forse per aver bevuto, vengono vinti dal sonno, benché fossero stati pregati di restare svegli e all’erta. E perché dannatamente si addormentano? Perché non devono ascoltare e vedere, non devono essere testimoni di un colloquio straordinario.

Diversamente dal Vecchio Marinaio della Ballata di Coleridge, che è rimasto vivo per poter testimoniare e scontare i fatti soprannaturali attraversati; diversamente da Ismaele, unico lasciato vivo per testimoniare e raccontare lo scontro titanico del vecchio Ahab col capodoglio MobyDick, che ha tutta l’aria d’essere anche lui un biblico Leviatano; diversamente dal testimone delle burrasche cantate in Salty Dog dei Procol Harum, il quale ne ha scritto il diario di suo pugno dunque giura che la sua mano è testimone veritiera di quei fatti; cioè diversamente da storie classsiche, in cui l’unico rimasto è qualcuno che riferisce la storia che altrimenti resterebbe ignota, qui Ebaù è sì unico testimone vigile ma non può raccontare, si limita fraternamente ad affiancare, e a condividere col suo sodale umano (e molto divino, quanto lui che è divino perché naturale) l’esperienza di fatti straordinari, oltre che a condividere appunto la dote del fiuto e della visione, la capacità di sintonizzarsi su altre piste della percezione e sentire presenze, ma soprattutto di comunicare altrimenti.

Come quando era stata la presenza di Ebaù sul sagrato a permettere ai disperati Maria e Giuseppe di ritrovare Gesù dodicenne scappato nel Tempio dove subito aveva preso a insegnare a sacerdoti e sapienti. Oppure come quando, verso il Getsemani, Ebaù vede Gesù circondato da cani neri enormi, e Gesù a sua volta sorprende i demoni a fianco ai sacerdoti del Sinedrio.

Vorrei aprire una piccola parentesi citando una frase come esempio della formulazione pardiniana: “Approdati nel paese dei gaderani, Ebaù prese a girare attorno a Cristo, il pelo della schiena gonfio, come avesse annusato la presenza di Satana”. Ci sono qui tutte e due le forme assolute che Vincenzo Pardini pare prediligere: l’ablativo e l’apposizione (che occhieggia all’accusativo alla greca caro al Manzoni). Il loro uso profuso nell’intero libro, oltre a dettare il ritmo della prosa, crea un effetto di solennità e anche una calata di andamento annalistico, se è vero come è vero che il libro non poche volte ci riporta all’oggi, non solo attraverso qualche apparizione dell’autore con i suoi “penso” e “credo”, oppure con osservazioni legate a studiosi e rinvenimenti archeologici che gettano luce su dettagli come la corporatura di Cristo o il fatto che camminasse perlopiù scalzo, ma anche producendo un effetto-simultaneità piuttosto visionario, cioè accendendo visioni di guerre e disastri a venire rispetto al tempo narrato, di eserciti accompagnati da demoni, con scenari molto contemporanei, in cui il pianeta è un inferno prossimo alla fine e al giudizio universale, e somiglia vertiginosamente al nostro oggi.

E questo riapre il nostro discorso. Raccontare di nuovo questa storia, lama unica di luce in un mondo di tenebra, serve non solo a circondare gli attori umani dell’intera fauna capitanata dal grande cane bianco, ma anche a insinuare l’intuizione che Gesù e Ebaù, oltre che coetanei, siano entrambi incarnazioni di Dio. E forse per questa via Pardini riesce persino a ricongiungersi al cane di Ulisse, Argo, capostipite di ogni cane letterario, e ancor più a quegli elementi naturali omerici, come il fiume, nell’Iliade, che attoniti affiancano l’uomo e l’osservano nel perpetrare il disastro proprio e della propria specie insolente.


Il disegno accanto al titolo è di Giulia Cavallini.

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