Andrea Carraro
Ancora su "Autobiografia dei miei cani”

L’arte di raccontarsi

Sandra Petrignani nel suo nuovo libro affronta il doppio registro del raccontare sé stessi e, attraverso di sé, descrivere gli altri. Mescolando realtà e finzione

“Avere un cane è trovarsi in un costante stato di innamoramento» osserva Sandra Petrignani in Autobiografia dei miei cani (Feltrinelli), il più recente suo libro, nel quale la scrittrice piacentina ma romana d’adozione si racconta attraverso i molti animali – soprattutto cani, ma anche un gatto, Topazia, – che la hanno accompagnata nel corso dell’esistenza, in un racconto di levigata leggerezza e di feconda ispirazione, fra biografia d’autore e romanzo di formazione, che suona autentico, nel personaggio della protagonista narrante, Elettra (un credibile Alter ego della scrittrice) – sia delle altre figure – maschili e femminili – che le gravitano attorno nelle diverse età della vita. Più che un memoir o una generica autofiction come se ne scrivono tante oggi, un romanzo autobiografico che tocca tutte le età della vita cronologicamente: partendo dalla infanzia onirica, mitica, nebbiosa, nel piacentino, alla Pertite, dove il padre militare era stanziato, – poi a Roma in un villino a Città-Giardino, poi in una casa a Trastevere negli anni della contestazione, e poi il quartiere africano, fino al quartiere Monti, avanzando nella maturità – un’esistenza “piena” e “passionale”- fra innamoramenti, molti, e fughe, matrimoni (tre), lutti, separazioni, tradimenti, ritorni drammatici, inquietanti: come quello, di un artista, un pittore inglese, si prenda a esempio, con cui la scrittrice aveva avuto una breve storia d’amore (che si spegne a Londra, in una sorta di improvvisa saturazione estetica, artistico-esistenziale, per il suo studio-atelier in una chiesa sconsacrata, forse anche per la sua arte), in un’altra stagione della vita, che si ripresenta venti o trenta anni dopo con un cancro e pochi mesi di vita e le chiede l’impossibile: di tornare a vivere insieme, sotto uno stesso tetto, per il poco che gli resta da vivere… Nel libro di eventi di questo tipo, di epifanie, di corrispondenze, di simmetrie esistenziali ce ne sono diversi.

Sandra Petrignani s’interroga molto, nel corso del libro, – sul significato più profondo del suo raccontare di sé, della forma che deve prendere il suo racconto esistenziale, “Penso che se mi mettessi seriamente a scrivere la storia della mia vita – fa dire al suo mentore-primo marito, uno scrittore raffinato, di nicchia, con cui intesse una lunga conversazione critico-letterario-filosofica che ritorna, anche in forma epistolare, nel corso di tutto il libro, a chiosa dei vari frammenti memoriali – “cambierei radicalmente tutto. Perché la vita vera non basta mai a uno scrittore, almeno a uno scrittore che non intenda proporsi testimone”.

E poi, quasi una dichiarazione di poetica ispirata, ci avverte l’autrice, a Modiano: “Se potessimo ricopiare in bella il nostro passato… La letteratura è l’unico modo per farlo, cambiare le carte in tavola, riportare in vita, correggere le sbavature, recuperare il tempo perduto, rimettere in linea percorsi sgangherati, trovare spiegazioni a come sono andate le cose… “

Ecco, la scommessa di questo libro è stato proprio far convivere nella pagina due tendenze complementari del proprio stile ibrido, memorialistico–narrativo: da un lato, l’invenzione romanzesca, tipica del narratore, del narratore di storie – spesso giocata su un melò vagamente ironico – e una vocazione testimoniale, dall’altro, rispetto al proprio personaggio pubblico, e ai personaggi noti con cui è venuta in contatto, alla propria storia personale di donna e scrittrice e giornalista militante, sessantottina, femminista engagé, biografa appassionata di scrittrici e artiste famose, così come si è sedimentata negli anni. Nella affollata galleria di ritratti, ne brillano anche alcuni minori, come la suocera (“capelli arruffati da parrucchiere, pantofole ai piedi”, “la bocca stretta e battagliera”), la madre del marito, che durante un pranzo familiare, nella sua bella casa affacciata sul Colosseo, si scandalizza ricevendo in dono (proprio) dalla moglie di suo figlio, Una donna, romanzo autobiografico protofemminista di Sibilla Aleramo, nel quale, ricordiamolo, una donna fa la scelta coraggiosa e per quei tempi avventurosa, di abbandonare il marito padrone e giocoforza anche il figlio e affrancarsi dal giogo patriarcale, familiare, campando del proprio lavoro di scrittrice e giornalista e insomma emancipandosi. E la vecchia suocera di Sandra-Elettra sottopone la nuora a un interrogatorio incalzante: (“e tu lasceresti un figlio per separarti da tuo marito? Ma non capisci che una madre vive soprattutto per i figli?”) – la vecchia signora si scandalizza non soltanto per certe simmetrie biografiche (la Petrignani deciderà di lasciare un figlio ventenne a Roma, nella sua vecchia casa, e si trasferirà in Umbria con il nuovo compagno), ma proprio per il significato più profondo, di quel capolavoro letterario, di quella storia potente di liberazione femminile.

Una parola sugli animali va detta; già richiamati nel titolo, “Autobiografia dei miei cani”, quegli animali domestici, che nel racconto di Petrignani sono massicciamente presenti dall’inizio alla fine, non hanno solo un ruolo accessorio, funzionale a quello degli umani, ma partecipano in modo attivo alla narrazione drammatica. Come quando viene raccontata sbrigativamente alla protagonista da terzi, al telefono, verso la fine, la morte atroce dei suoi cani amatissimi, per assideramento, dentro la macchina chiusa, sigillata, per diverse ore, per una colpevole dimenticanza di suo marito che in quelle giornate li aveva in carico, un evento che si era già presentato in passato con un altro cane, il suo primo cane Rocky, un barbone bianco di grossa taglia, e la dimenticanza allora era stata di suo padre, – come oggi i dettagli dell’agonia e della morte più macabri al telefono le vengono risparmiati, ma bastano poche allusioni a dare i brividi, e a creare il cortocircuito, e il giusto clima di pathos attorno all’evento – i cani che abbaiano all’impazzata grattando coi le zampe anteriori sui vetri chiusi, spostandosi freneticamente fra i sedili davanti e dietro dell’abitacolo, la temperatura che sale a livelli insostenibili… Questo succede verso la fine, va detto, quando ben conosciamo il sentimento della scrittrice per questi animali domestici di cui amava circondarsi, spesso raccolti per strada, di qualunque taglia, anche tre o quattro alla volta, sempre accolti con gioia nella sue varie case, accuditi, coccolati, battezzati con nomi diversi – Guapa, Rocky, Ruggero, Lenin (nel periodo più politicizzato)- e un unico cognome per tutti, Bigliardino, secondo un codice ereditato da qualche scrittrice o poetessa amata. Quindi si può dire che l’autrice abbia covato – e proiettato vantaggiosamente nel racconto, – un qualche senso di colpa verso l’intera specie canina? Forse no, ma noi lo affermiamo lo stesso.

Quindi, provando a tirare i fili, riassumendo: tanti felici ritratti, maschili e femminili, di artisti scrittrici e scrittori, – Giosetta Fioroni, Lalla romano, Giorgio Manganelli, fra gli altri, che si alternano a personaggi comuni, significativi solo per Elettra, per la sua storia familiare, e per noi lettori, per esempio l’amichetta Wendy, magnifico personaggio di ragazzina viziata ed eccentrica dai capelli dorati, che faceva le pubblicità comparendo nel Carosello serale, e viveva nel villino confinante con il suo, quello della sua famiglia, nell’infanzia mitica a Città Giardino, a Monte Sacro, nella sezione forse più bella di tutto il libro, quando la protagonista, novenne o giù di lì, entrava nel magico lussureggiante misterioso giardino dell’amichetta grazie a un foro nella rete di recinzione e all’ombra di quegli alberi, di quelle piante, spiando nei recessi degli scantinati, – nella cantina dove il padre della bambina tanti anni dopo si impiccherà arrotolando una corda a un trave, – in quella villa faceva con lei alcune esperienze fondamentali della crescita. Poi la ritroverà grande, Wendy, quarantenne, a una festa di cinematografari, in compagnia di un architetto ecologista in un’atmosfera del tutto diversa.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

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