Diario di una spettatrice
Lanthimos senza storia
Il nuovo film di Yorgos Lanthimos, “Kinds of kindness”, mette insieme tre capitoli lunghi e senza un (apparente) legame uno con l'altro: manierismo cinematografico
Ogni anno per me è così, appena finisce il festival mi faccio l’elenco delle pellicole in arrivo da Cannes e non vedo l’ora di godermele in sala. Per questa ragione oggi non ho esitato a saltare il pranzo pur di assistere alla prima proiezione bolognese (ovviamente in versione originale) di Kinds of kindness, il nuovo film scritto, prodotto e diretto da Yorgos Lanthimos, a pochi mesi dal suo Poor things da Leone e da Oscar.
Due ore e 45 minuti per tre storie surreali apparentemente scollegate ma che, come nei racconti della somma Elisabeth Strout, potrebbero rivelare alla fine connessioni insospettabili. Uso il condizionale perché, mentre nella scrittrice americana i fili che intrecciano storie e personaggi coinvolgono facilmente il lettore, nel caso di Lanthimos la faccenda è più complicata, anche se non escludo che ci sia chi riuscirà a trovare un senso in una pellicola che secondo me, come cantava Vasco, un senso non ce l’ha.
L’unico senso che ho trovato, oltre all’indubbia perizia del regista di tradurre in immagini crudelmente perfette le sue fantasie più tortuose e morbose, dando tuttavia l’impressione di non esserne minimamente coinvolto, è che salta agli occhi quanto Lanthimos si diverta a provocare gli spettatori mettendoli di fronte a situazioni talmente assurde e grottesche da suscitarne il fastidio e, per quanto mi riguarda vista la durata del film, anche la noia.
Ciò che tiene insieme i tre capitoli di questa pellicola troppo lunga sono i protagonisti, sempre gli stessi in ruoli diversi: ovviamente c’è la sua musa Emma Stone di indiscutibile bravura ché quando entra in scena lei non ce n’è per nessuno, ancora una volta c’è Willem Dafoe, c’è la bellissima Margaret Qualley, copia conforme della mamma Andie MacDowell, e soprattutto c’è Jesse Plemons, il vero baricentro di tutti e tre i racconti, giustamente premiato come migliore attore a Cannes.
Senza rivelare niente a chi vorrà affrontare l’impresa, dico solamente che il primo capitolo suggerisce una critica alla società occidentale e al ricatto del benessere in cambio della libertà, una sorta di rilettura attualizzata del Grande Fratello orwelliano. Il secondo sembra una parodia della canzone di De André La ballata dell’amore cieco ma si risolve nel più sconclusionato e disturbante dei tre episodi. Il terzo infine ci porta nel mondo inquietante delle sette spirituali alla ricerca della donna capace di resuscitare i morti. E sarà proprio un risorto a collegare il finale del film alla sua scena iniziale.
Conclusione. Per reggere due ore e 45 minuti di cinema serve qualcosa di più della bravura indiscutibile di un regista: serve una storia capace di coinvolgere gli spettatori. Lo sanno fare in pochi, su queste lunghezze Spielberg e Scorsese sono i primi che mi vengono in mente. Lanthimos ci riesce quando costruisce i suoi sontuosi affreschi d’epoca, l’ha fatto con La Favorita e Poor Things, magari perché questo è il genere di film che piace al grande pubblico. Ma con Kinds of kindness temo che il pubblico si restringa drasticamente, deludendo persino i “lanthimosiani” più convinti.