“Nel concerto del tempo”
Il “teatro naturale” di Marco Pelliccioli
Esordio nello storico “Specchio” del poeta lombardo con un’opera di «notevole impegno» che si offre come composita «architettura poetica» dove tutto trova posto e senso. Da un tempo pregresso alla percezione minuta del presente, tra improvvisi squarci, ombre e, sempre, la forza delle immagini
Una scomposizione cubista del quadro, una disarticolazione che mette in risalto, isolandoli, particolari che hanno ragione in quanto componenti a pari titolo di un insieme. E saranno volti, gesti, torsioni, lacerti di paesaggio, emblematiche figure del mondo naturale. È quanto colpisce fin dalla prima lettura dell’articolatissimo libro di Marco Pelliccioli, all’esordio nello storico “Specchio” (Nel concerto del tempo, Mondadori, Milano 2024, 150 pagine, 16 euro) con un’opera di notevole impegno che rielabora materiali pregressi usciti in edizioni minori insieme a testi nuovi e li organizza in un’architettura poetica dove tutto sembra trovare la propria collocazione e il proprio senso. Tale impressione è come avvalorata dalla materia stessa cui fa ricorso il poeta, che si serve di versi e prose, talora all’interno dello stesso componimento, quali timbri e accordature a diverse altezze ma convergenti in un medesimo concerto, termine che riconduce inevitabilmente al titolo del libro. Sì, perché se è vero che questo libro si dipana come un viaggio a fare inizio da un tempo anteriore al tempo del poeta, e così facendo stabilisce una prospettiva e una rete di relazioni e idee su quanto finisce per circondarci, il suo tratto forse più robusto è dato dal convivere al proprio interno, in un amalgama di volta in volta messo alla prova, di una vena narrativa e di una vena francamente lirica. E le sezioni che strutturano il libro certamente ci aiutano a coglierle nel loro articolarsi.
Una pietas profonda orienta lo sguardo del poeta nel cogliere la drammatica bellezza e insieme la fine di un mondo popolato di umili ma decise presenze che ci vengono incontro in forza di un dettaglio, di un gesto, di un correlativo oggettivo. Così sarà difficile dimenticare l’Angiolina con le sue mani dolorosamente deformate, la Nunzia in quel vecchio cortile di cascina, «boccioli di rosa / appena pronunciati, grazia / che splende alla fontana» e sembra di rivedere la “Fontana di rustic amòur” delle Poesie a Casarsa. Ma qui siamo alle porte della capitale del Nord, segnata da profondi mutamenti e squilibri, valori e disvalori come a una porta girevole, inquietanti progetti e le «mute rovine» partecipi della stessa dignità che si apriva davanti agli occhi dell’uomo della Bovisa. Tanto che il poeta è a chiedersi che forma avrà quanto attorno a sé cambia, a domandarsi se i nuovi «vetri spiroidali» ammetteranno ancora la presenza di un fioraio «come all’angolo di via Pietro Maroncelli // dove distratto compr[a] / una rosa gialla / nel locale sporco di terra / forbici, e petali caduti».
A scorrere come un basso continuo sono le acque del Lambro, alle cui rive ci è dato di cogliere il pulsare di una vita segreta fatta di umili, talora quasi invisibili creature che sembrano resistere a dispetto del loro abito apparentemente gracile, indifeso, in un universo che «non è semplice decoro, o sterile / contesto, ma il vero habitat / di noi / esseri animali». Si tratta di un momento importante della poesia di Marco Pelliccioli, che vede in una compresenza naturale una via fraterna da custodire e percorrere, e forse proprio in quest’ordine di riflessioni si può cogliere il tratto civile del suo operare poetico, in questa cioè sua sostanziale partecipazione a un momento più ampio che trascende la propria personale esperienza, ma che di quest’ultima non può certo fare a meno. Analogamente si potrà parlare del tempo, un tempo – in questo libro – che indica i grandi accadimenti e “periodizza” orienta, e un tempo invece che pur coincidendo con una sfera privata può sfuggire ai vincoli della clessidra.
Nella delicatezza, nella cura efficace, talora lenticolare dello sguardo sulle cose operate da Pelliccioli (nella foto), non è raro avvertire un effetto perturbante, cogliere una torsione che disorienta e interroga, rimanda ad altro e si colora di mistero. Il terribile slittamento di senso in una bellissima prosa poetica come “La gardenia” è esemplare a questo proposito, nel muovere da un modesto dato di realtà quale l’apparente morte della pianta. Tanti sono gli esempi che a questo si potrebbero accostare, in un libro popolato di minime, esorbitanti presenze, come l’enigmatico chirocefalo delle acque stagnanti, o l’indecifrabile pesce gatto che fanno pensare a una sorta di realismo onirico. Ma al di là delle possibili definizioni resta il timbro sicuro di un autore che ha saputo costruire il proprio teatro naturale e ce lo consegna con tutte le sue sfumature, gli improvvisi squarci e le ombre, la forza delle immagini – «Bolle d’intonaco s’irradiano / sulla parete gialla: / potrebbero essere due cani / in procinto di lottare, o una natura morta, / il caco esploso sulla buccia» … sembra una foto di Luigi Ghirri – e le domande, naturalmente, che continueremo a condividere.
Nella foto vicino al titolo: Marc Chagall, Il tempo è un fiume senza sponde, 1930