Giuliano Compagno
In margine al Festival Nutida

Capire, improvvisare

Incontro con Francesco Giomi, musicista che sperimenta l'elettronica e l'improvvisazione, e Beatrice Ciattini, danzatrice: «Nessuno sa effettivamente cosa accadrà in scena il minuto dopo...»

Con la direzione artistica di Cristina Bozzolini e di Saverio Cona, il Giardino del Pomario del Castello dell’Acciaiolo di Scandicci sta ospitando Nutida, Festival internazionale di Danza che per la V edizione rinnova il suo intenso connubio tra ricerca e qualità. Mi è spettata la buona sorte di seguire due spettacoli di grande impatto estetico ed emotivo. Del primo, Selective Breeding (nella foto accanto al titolo), un work in progress del talentuoso Pablo Girolami, per la drammaturgia di Karen Stenico, dirò subito che mi ha colpito la sottile tragicità della coreografia e, con essa, la meravigliosa corporeità espressiva dei sei danzatori, tutti i meritevoli di citazione. Erano Sara Ariotti, Kiram Bonnema, Guilherme Leal, isidora Markovic, Lou Trabhart e Katarzyna Zakrzewska, un’italiana, un olandese/brasiliano, un portoghese, una serba, un tedesco e una polacca.

Insieme, questi giovani, bravissimi artisti hanno dato luce a una sola voce e a un’unica cultura, risalenti a un pensiero antropologico ed etimologico secondo cui la questione della sopravvivenza umana appare condizionata dalla risposta dei sopravvissuti, quelli usciti illesi da una prova di opposizione al cambiamento. Sicché dal primo all’ultimo movimento, in entrambi i casi declamato da voci e da corpi femminili, figlie di una speranza e madri di una salvezza, il pubblico è stato trascinato in un vortice di impossibile comprensione e di bellezza addirittura provocatoria, fin dentro i versi finali di una elegia rilkiana…

«Si dice che gli Angeli, spesso, non sappiano
se vanno tra i vivi o i morti. L’eterna corrente
sempre trascina con sé per i due regni ogni età,
e in entrambi, la voce più forte è la sua.
Infine, non han più bisogno di noi
coloro che presto la morte rapì,
ci si divezza da ciò che è terreno,
soavemente, come dal seno materno.
Ma noi, che abbiamo bisogno di sì grandi misteri,
quante volte da lutto
sboccia un progresso beato: potremmo mai essere,
noi, senza i morti?»

Erano queste voci e questi corpi a mostrare i segni tangibili di una resistente bellezza che non sapremo mai se condurranno a una temporanea liberazione dalla schiavitù o a un definitivo asservimento della libertà.

Del secondo spettacolo abbiamo dialogato con Beatrice Ciattini – dal 2019 attiva e creativa per il Nuovo Balletto di Toscana e qui coautrice del progetto coreografico – e Francesco Giomi, ideatore, compositore e musicista dal vivo dell’opera. Giomi è assai noto quale compositore di musica elettronica, come autore di opere discografiche di eccellenza, nonché per i suoi anni d’intensa collaborazione con Luciano Berio, tra l’altro fondatore di quel “Tempo Reale” che Giomi stesso dirige da qualche anno, oltre a essere professore di musica elettronica presso il Conservatorio di Bologna.

E allora eccoci a dialogare su questo spettacolo intitolato Impulso… Il sottotitolo invece è un po’ più articolato: «Azione improvvisativa per musicista è una comunità di danzatori e danzatrici».

Nel connettere l’improvvisazione all’impulso, viene in mente che viviamo in una società, e forse in un mondo delle arti, proprio regolato sull’impulso e sulla reazione.

Credo che l’impulso, come gesto e come comportamento, dipenda piuttosto dall’ambiente in cui si manifesta. Vi è anche da aggiungere che impulso e reazione sarebbero due atti istantanei del vivere e del sentire. Tra l’altro se ci riferissimo a una comunità più vasta, e allo stesso tempo ristretta nel perimetro di un palcoscenico, assisteremmo allo scatenarsi di azioni impulsive e improvvisate rispetto a suoni e a movimenti inattesi.

Quale sarebbe il modo più corretto di definire l’immediatezza?

Forse come un’assenza di riflessione, e anche come il manifestarsi di un certo opportunismo. D’altronde oggi, nell’ambito dei social, un’attenzione piuttosto estesa è rivolta alle arti contemporanee, da cui traspare una omogeneità di giudizio.

A quale artista del recente passato faresti riferimento quando pensi all’improvvisazione?

Beh mi viene in mente Alvin Curran; la sua fu un’improvvisazione concreta, sviluppata all’interno di un quartiere romano, Trastevere, dove qualsiasi suono prendeva forma in maniera assolutamente spontanea.

Ciattini, un’improvvisazione di gruppo nasce come tale oppure si sviluppa quale somma di improvvisazioni individuali?

Sarebbe impossibile considerare un’azione collettiva come la somma di azioni individuali, soprattutto quando il materiale è completamente improvvisato. Nessuno sa effettivamente cosa accadrà in scena il minuto dopo. Tutti noi sappiamo che ciascuno esprimerà il suo sentire e la sua tecnica, si naturalmente muteranno a seconda delle situazioni vissute. In ogni caso, non è semplice commentare un’improvvisazione, perché sarebbe inevitabile dar luogo a un ossimoro. In verità ciò che emerge alla luce è l’ascolto condiviso di una comunità di nove artisti. Ciascuno di loro possiede le proprie conoscenze ma sarà soltanto attraverso una sensibilità partecipata che apparirà quella precisa immagine che nessun artista avrebbe potuto rappresentare singolarmente.

E dunque, cosa viene generato dall’improvvisarsi al mondo?

Penso che l’improvvisazione vada creando una nuova entità artistica capace di racchiudere le varie conoscenze, disvelate o dissimulate che siano. Da ciò si creerà un’improvvisazione collettiva in cui verranno ripercorsi sentieri diversi, da cui dialoghi e drammaturgia si svilupperanno in modo da accogliere qualsiasi tipo di impulso.

Giomi, cosa ne sarà degli impulsi?

È conseguenza che essi vengano riorganizzati nel corpo e nella mente in modo da essere rimandati in scena senza attivare uno schema predefinito. In quest’occasione il lavoro comune è stato quello di vincere qualsiasi approccio selettivo per mantenere una posizione neutra del corpo e della mente. Insomma, intendevamo rimandare una scena dove non albergassero schemi predefiniti. A tal fine abbiamo cercato di creare una nuova vita del movimento, del suono e del gesto.

Come avviene l’improvvisativo contatto tra un coreografo e un musicista?

Abbiamo proprio lavorato in una direzione opposta alla coreografia perché non ci siamo messi nelle condizioni di esporre le nostre attese o di chiedere che qualcosa venisse realizzato.

Dunque si è proceduto attraverso una oggettivazione del lavoro. Questo mi ricorda l’approccio documentaristico degli Ateliers Varan, secondo cui non è l’autore a scrivere la storia ma è il soggetto seguito a narrarla come, quando e dove voglia farlo.

In questo senso penso che avvertiamo la medesima ambizione: raggiungere senza neanche volerlo l’oggettivarsi del movimento del danzatore. Se il coreografo non guida la macchina, si dà luogo alla tipica assonanza di un lavoro collettivo; che sia training, performance o analisi, si tratterà pur sempre di un triangolo entro il quale ci saranno dei ripensamenti.

Ci è voluto molto tempo?

Nei pochi giorni in cui siamo stati insieme, abbiamo lavorato a una costruzione non dettata dalle regole del gioco. Era come osservare l’impulso nel mentre esso guidava i corpi in scena, senza ridurci a dire cosa fosse giusto o sbagliato. Non c’è margine di errore in questo lavoro, non è mostrare quel che si sa fare o quanto si è bravi, bensì creare un gesto solo se necessario.

Infine, sei entrato nell’epoca della irriproducibilità tecnica della musica

La musica improvvisativa mette in relazione la tecnica con l’espressività, e il lascito del jazz è sin troppo ovvio. In fondo ho l’impressione di rispondere a un presente che oggi sta vivendo una stagione di grande interesse giovanile verso la musica elettronica. Si tratta di una galassia che esprime una ricerca e una poetica di notevole eterogeneità. Che l’opera alla fine risulti irriproducibile, in fondo, è un’orma di verità.


La fotografia accanto al titolo è di Pietro Jorge, le altre due sono di Maurizio Tibaldi.

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