Il Ceppo e le 7 opere di Misericordia corporale
Ulisse e i pellegrini
La tre giorni conclusiva della 68esima edizione del Premio Internazionale Ceppo dedicata al Racconto. Tra gli eventi, la presentazione a Pistoia del volume “Nelle sue mani”, con le 7 lezioni dei vincitori ispirate al fregio robbiano dell’ex Ospedale pistoiese. Anticipiamo il testo di Nadia Terranova
La 68edizione del Premio Letterario Internazionale Ceppo, dedicata quest’anno al Racconto, si conclude con una serie di eventi che si svolgono a Pistoia da oggi, 3 maggio, al 5. In particolare sabato 4 maggio sarà presentato il volume Nelle sue mani (Interno Poesia, in collaborazione con il Premio Ceppo), curato da Paolo Fabrizio Iacuzzi (presidente e direttore del Premio), in cui sono raccolte le lezioni dei 7 vincitori sulle opere di Misericordia corporale, raffigurate nel fregio dell’ex Ospedale del Ceppo. Saranno gli stessi autori a leggerle, dalle ore 17, nella Sala Maggiore del Palazzo Comunale. Per gentile concessione dell’editore e del Premio Ceppo pubblichiamo la lezione di Nadia Terranova (Premio Ceppo Infanzia e Adolescenza) “Accogliere i pellegrini. (Info: www.premioceppo.it)
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«Forestiero, anche se arrivasse un uomo ancora più disgraziato, non lo maltratterei, perché tutti gli stranieri e i mendicanti sono mandati da Zeus». Sono le parole di Eumeo, il porcaro di Ulisse. Pur non riconoscendo il suo padrone, tornato dalla guerra dopo vent’anni, Eumeo sa che dietro i mendicanti e gli stranieri può celarsi un dio capriccioso: la sua ospitalità, dunque, è più vicina a una innata bontà d’animo o alla paura di una punizione? «Gli dèi hanno impedito il ritorno di colui che sarebbe sempre stato generoso con me» continua, desolato – e nelle sue parole c’è la speranza di essere esaudito: se dietro il lercio sconosciuto contro il quale i cani hanno abbaiato si dovesse nascondere un dio o un emissario, allora spera che il messaggio arrivi forte e chiaro, imperioso come una preghiera. Certo, stiamo dalla sua parte per simpatia e anche per egoismo, anche perché sappiamo come andrà a finire, sappiamo che fine farà lui, e quale invece Antinoo e i suoi compari. Ci sembrerebbero così stupidi i Proci, nel deridere il vecchio cencioso e zoppicante, «l’immagine della miseria», se non avessimo fin lì seguito le peregrinazioni di Ulisse? Staremmo dalla parte di Ulisse se la storia fosse raccontata con altre omissioni, per esempio dalla voce di un astante a un banchetto che non sa perché la festa deve interrompersi?
Queste domande ci portano in una zona scomoda, ma necessaria. L’accoglienza, che tanto ci piace celebrare, è davvero innata oppure ha bisogno, tutte le volte, di essere riesumata dalla paura o dall’empatia? Se il mendicante fosse stato solo un mendicante, né una divinità né un eroe, e soprattutto fosse stato davvero un forestiero, non il legittimo padrone di casa, non avremmo avuto la stessa facilità a riconoscergli un diritto. Tutte le scene che nell’Odissea celebrano il ritorno a casa di Ulisse non sono, come a volte è stato frainteso, un inno all’accoglienza ma un avviso, una messa in guardia sui comportamenti superbi degli usurpatori e, con la sadica consapevolezza del narratore che sta per far esplodere la mattanza, Omero si diverte a mostrarci fino in fondo gli inganni e l’arrogante inconsapevolezza di chi presto sarà punito. Certo, da quella punizione possiamo imparare, e riflettere, su quanto sia mobile il punto di vista – del resto, nel sistema di valori che accettiamo entrando nel mondo omerico, siamo abituati a imparare sotto scacco.
La povertà non è certo una virtù nell’Odissea: Omero sa che nell’indigenza l’essere umano dà il peggio di sé, mosso dalla paura di non sopravvivere. Quando i due mendicanti, Iro e Ulisse, si sfidano a duello, è perché il primo ha paura che il suo posto possa essere preso dall’altro, ed entrambi sanno che nella società non c’è posto per troppi poveri: uno può far colore, ma due sono già un problema.
I mendicanti protagonisti della frase più famosa della Bibbia sanno che a loro appartiene il regno dei cieli, ma continuano a non avere un posto sulla terra. Restano loro i ruoli da protagonista nelle scene più iconiche, come la resurrezione di Lazzaro, il mendicante lebbroso. Il vagabondo, per vivere, deve passare attraverso la morte: un’idea che ritroviamo anche nei Tarocchi, nella sequenza ideale di tre carte che ci mostrano un uomo, forse lo stesso, in tre fasi diverse del suo cammino nei boschi, ai margini delle città e del potere: il Matto (Arcano numero zero), l’Eremita (Arcano numero nove) e l’Appeso (Arcano numero dodici). Nella sequenza numerica del cartiglio, l’uomo che agli occhi del mondo urbano sembra aver perso il senno si trasforma nel sapiente che vive ritirato nei boschi, salvo poi essere scambiato per un brigante e appeso a testa in giù. Ma la carta del Matto è una carta mobile, e lo zero non viene necessariamente prima dell’uno, quindi la storia si può scombinare a piacimento, tanto più che le stese degli Arcani sono anarchiche e non numeriche: forse l’Eremita non è che lo spirito dell’Appeso che vaga per le campagne, un uomo che morendo ha passato una soglia per poi ricominciare in altra forma il suo viaggio terreno. E chissà che in origine egli non fosse stato il Matto, ovvero quel Lazzaro che nessuno vuole toccare perché ha paura – del resto, i Tarocchi sono nati in ambito cattolico, generati dal gioco sacro nelle corti rinascimentali.
Cosa succede, invece, alle mendicanti? Nell’iconografia e nella tradizione narrativa, favolistica e parabolica, il mendicante occupa un posto speciale, non necessariamente legato alla conoscenza o alla pratica delle arti magiche.
Le donne, invece, hanno un’aura diversa, sempre al confine con l’ignoto: se una donna vive in un bosco è una strega, con tutto ciò che la definizione comporta in termini di sospetto, persecuzione e soppressione. Se una donna giovane ha una casa e gira il mondo, di solito è una prostituta, mentre il vagabondare degli uomini non viene per forza associato alla sessualità, e anche se Ulisse ha una donna in ogni porto, nell’immaginario contemporaneo può mantenere anche la sua solida identità di padre di famiglia.
La vecchia mendicante è una favola dei fratelli Grimm, in cui una donna vestita di stracci viene invitata da un monello a scaldarsi a un fuoco. Il monello sa cosa accadrà: la donna infreddolita si avvicinerà troppo, i suoi abiti verranno bruciati dalle fiamme e lei con loro. Il monello avrebbe potuto fare qualcosa per salvarla, invece se ne starà a guardare e a ridere. La fiaba ci avvisa che, se anche non avesse avuto acqua a portata di mano, il ragazzo avrebbe potuto spegnere il rogo con le sue lacrime. Ma questo non avviene, il ragazzo non piange e la fiaba ci lascia lo sconcerto di un bambino che ride mentre una donna prende fuoco.
Dunque, senza ammonimento divino è già difficile la carità verso i mendicanti, figurarsi per le mendicanti. Quanto a noi, non sapremo mai se dentro il corpo di quella donna si era nascosta una dea.
Nelle immagini due particolari del fregio rebbiano dell’ex Ospedale della Misericordia a Pistoia