Vince il Premio “Città di Pescara”
Muldoon poeta pop
L’autore irlandese riceve il riconoscimento già assegnato a Wagner, Portante, Núñez, Teofilo, Pey. Definito «il più caratterizzato tra i poeti contemporanei e il più elusivo», i temi dei suoi versi narranti lo riconducono spesso, tra «un ingorgo di visioni e di personali appigli», alla sua contea natia
L’irlandese del nord Paul Muldoon, considerato uno dei maggiori poeti di lingua inglese, ha avuto vari riconoscimenti: il Pulitzer, il T.S. Eliot Prize, l’Irish Times Prize, il Griffin Prize, e una critica assai favorevole e sostanziosa. In Italia, sommamente tradotto da Luca Guerneri, è stato pubblicato da Mondadori e da Guanda. A Muldoon verrà assegnato il “Premio di Poesia Città di Pescara – Sinestetica, 2024”, la premiazione è prevista per il 29 maggio (alle ore 16, all’Auditorium del Museo delle Genti d’Abruzzo), nella città abruzzese. Promosso dal “Centro di poesia e altri linguaggi”, il premio nel passato è stato assegnato a Wagner, Portante, Núñez, Teofilo, Pey. Il poeta irlandese vive ormai definitivamente negli Stati Uniti, insegnando presso l’Università di Princeton, ma il suo sguardo verso la terra natia non si è affievolito, e nelle sue poesie sempre ritorna quel suo familiare “cortile”, con l’abbraccio alla contea di Armagh, ora ribattezzata Muldoon Country. Peraltro il poeta, che è anche critico e saggista, ha curato nei mesi scorsi il libro, Lyrics (in Italia The Lyrics – Persone e ricordi dal 1956 a oggi, Rizzoli) di Paul McCartney, in cui l’ex Beatles, pubblica le sue canzoni e racconta varie cose sulla sua vita. Questo perché Muldoon è anche pop e non solo rigoroso poeta e professore. Basta leggere la sua poesia per scoprirlo.
Definito «il più caratterizzato tra i poeti contemporanei e il più elusivo», la sua poesia è ricca e totale. È visionario, profondo, beffardo, bizzarro. Insomma Muldoon è molte cose, e sicuramente non solo l’“erede” del Nobel Seamus Heaney (il che non sarebbe certo poco) che lo seguì e lo propose all’editore Faber. Per definire la poetica dell’irlandese, come suggerisce lo stesso Guerneri in una nota al libro mondadoriano, esaminiamo una poesia della raccolta Quoof dal titolo “I visitatori”, in cui il poeta mischia le carte in modo prodigioso, e quasi assurdo, raccontando di una gita a una nuova rotonda (sì a una rotonda spartitraffico o rotatoria, come le tante costruite recentemente anche in Italia): «Mio padre e mia madre, mio fratello e mia sorella/ e io, con lo zio Pat, il nostro austero zio preferito,/ eravamo partiti quella domenica pomeriggio di luglio/ nella sua Ford scassata// non per visitare qualche cimitero…/ ma per la rotonda nuova di zecca a Ballygawley/ la prima dell’Ulster centrale».
Certo, si dirà: era la prima e la curiosità premeva nei cittadini della zona, non fu così anche da noi per visitare nuove tangenziali o tratti di autostrada, come fu nel lontano 1964 per la (certo più impegnativa) A1 Bologna-Firenze? Ma il racconto (perché quasi di un racconto si tratta, come spesso capita nella poesia inglese che vira in prosa) di Muldoon poi prende vie oscure: «Lo zio Pat ci stava raccontando di come la polizia speciale/ l’avesse fermato una sera vicino a Ballygawley/ e gli avesse distrutto la bicicletta/ e fatto cantare un inno protestante e maledire il papa di Roma./ Gli avevano premuto una pistola così forte contro la fronte/ che c’era un segno a forma di O quando tornò a casa». E qui, pur nei passaggi strambi, si apre lo scenario della guerra fraticida tra cattolici e protestanti (il poeta è cattolico), e la O sulla fronte richiama sì la rotonda appena vista, ma pure la violenza vissuta in quelle terre, in cui la fronte era il bersaglio delle tante armi contrapposte. Il poeta giunge a certi spazi di vita, a talune problematiche o a sottili verità o situazioni, non in modo diretto, ma vorticando alludendo eludendo, portando il lettore non di fronte a un display dove ci sono i suggerimenti relativi e necessari, piuttosto lo introduce in un labirinto ove uscire diviene parte del segreto.
Vediamo ora un’altra poesia, forse privata o chissà cosa, probabilmente una storia familiare con un finale a sorpresa, sicuramente un ingorgo di visioni e di personali appigli: «Perfino io non posso fare a meno di notare, mia cara/ che quando infili il mento/ dentro il petto, come per piegare un lenzuolo/ tenendo una molletta// tra i denti, o quando, piccolo dettaglio,/ metti le tue mani così/ sulla tua pancina e giri/ i pollici così, è come se risalissi// su verso la nonna che mai incontrasti,/ la madre che scorgo/ in questa rossastra macchia di psoriasi// dietro l’orecchio che potrebbe/ all’improvviso accendersi nell’elmo/ che indossava quando resistette a Serse». Apre il poeta sottili vie, pertugi, minimi anfratti, ove mai si è sicuri di quello che egli intravede, quello che dispone sul suo tavolo da lavoro, rimandando sempre a un di più, a un oltre di ardua interpretazione. C’è peraltro un grano di beffarda propensione al clownesco, una spinta ironica e un enigma sospeso nel vuoto. Ecco, Muldoon pare volere spingere nel vuoto il lettore più che suggerire qualcosa, più che volere stabilire delle verità. Ci parla a volte di un quotidiano, ma sfuggendo da esso, collocandosi in un magma fatto di visioni e di derive, di pezzi di mondo e di ricordi.
Un poeta che ci riserva sempre sorprese come un abile prestigiatore, capace di costruire una scena (dico scena, perché c’è senz’altro un “incontro” teatrale nei suoi versi), in cui vi è la complessità abbinata alla fantasia, e una lettura della realtà che si intona a una delicata leggerezza, oltre che a cadere nella sorpresa del momento come fosse un colpo di pistola, o un battito di cuore che si fa sistole, come quando «fui svegliato la notte scorsa/ dalle oche/ dell’allevamento di John Mackle».