Lina Senserini
A proposito de "La ballata delle frontiere"

Dopo il Novecento

Flavio Fusi racconta il passaggio del Millennio con le sue guerre “a bassa intensità" che stanno distruggendo gli equilibri mondiali. Le piccole storie spiegano la grande storia

Nel titolo di un suo celebre saggio uscito nel 1994, lo storico Eric Hobsbawm definì il Novecento come il “secolo breve”, racchiuso tra il 1914 e il 1991 quando si è dissolta l’Unione sovietica. Diversi decenni prima, alla fine degli anni ’30, il poeta russo Osip Mandel’stam, aveva utilizzato un ben più drammatico appellativo riferito al 900, ma facilmente estendibile anche al primo ventennio del 2000. «Mio secolo / mia belva / chi potrà guardarti negli occhi / e saldare con il sangue le vertebre di due secoli?», scriveva, poco prima di cadere vittima delle purghe staliniane.

E proprio da questi versi, il giornalista Flavio Fusi ha preso in prestito il sottotitolo del suo secondo libro, La ballata delle Frontiere. Storie dal secolo belva (Exorma editore, 272 pagine, 16,50 Euro). Un viaggio a cavallo di due secoli, attraverso tre continenti dilaniati da conflitti “a bassa densità” che finiscono per esplodere in tutto il loro orrore come in Ucraina e a Gaza. La belva, allora, è proprio questo secolo, il XXI, iniziato storicamente nel 1991, spietato e violento, segnato da labili e mobili soglie di demarcazione, «antiche frontiere che esplodono e frontiere nuove che sorgono, frontiere non scritte, terre di mezzo e grandi fiumi-frontiera, tra illusioni, nuove schiavitù e massacri», si legge nella quarta di copertina.

Testimone delle maggiori crisi internazionali tra le fine del 900 e il primo decennio del 2000, Fusi è stato per trent’anni inviato Rai, caporedattore esteri, conduttore e commentatore del Tg3. Era a Berlino il 9 novembre del 1989 quando è caduto il muro, ha raccontato la guerra dei Balcani, è stato lui a dare in diretta la notizia della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ha raccontato la Russia e l’America Latina, la New York delle Torri Gemelle, l’Argentina dei desaparecidos, la Cecenia, Haiti.

In questo nuovo lavoro, come già era in parte avvenuto nel suo precedente Cronache infedeli, smette i panni professionali del giornalista – anzi del cronista, come si definisce nel libro – per raccontare persone, impressioni, ricordi, appuntati sui taccuini, risvegliati dalle foto, ripescati dalla memoria e trasposti sulla carta con una forte connotazione personale e intima. Forse l’eredità più pesante dei fatti di cui è stato testimone e che ha raccontato per trent’anni dallo schermo della tv.

Tra le pagine del libro non ci sono i grandi eventi mostrati ai telespettatori davanti a un microfono e una telecamera, ma le piccole storie della gente comune, quella incontrata per strada, in una casa distrutta dalle bombe, in un bar di Tijuana. Sono le famiglie di Mostar, prima unite poi divise dallo Stari Most crollato sotto il fuoco croato-bosniaco nel 1993. Sono le argentine Abuelas de la Palza de Mayo, mai arrese, che cercano i loro nipoti, sottratti alle madri rapite e poi uccise subito dopo averli messi al mondo, durante la dittatura di Videla. Sono le operaie messicane delle maquiladoras al confine tra Messico e Stati Uniti, dove lavorano per pochi dollari e che hanno paura a parlare con i giornalisti. Sono i disperati che lasciano la Bolivia, il Venezuela, il Salvador, il Guatemala, il Perù, il Nicaragua, in una inesorabile quanto dolorosa migrazione verso nord.

Le loro “piccole storie” si mescolano alla grande storia che per lo più li ha schiacciati, ha sconvolto le loro vite, ha sottratto loro anche i ricordi, insieme all’identità e all’appartenenza. Un fiume di esseri umani senza terra, perché, scrive l’autore, «quando una frontiera esplode, i frammenti volano per il mondo. La frontiera che va in pezzi è come una bomba a grappolo, che libera la raffica di un pulviscolo umano pronto a nuove fiammate, all’infinito».

Fusi inizia il suo percorso attraverso le frontiere del secolo belva partendo proprio da Berlino, da quel 9 novembre 1989, il momento che ha messo fine a un mondo scolpito sulla pietra e ritenuto incrollabile. Ma che poi come un domino ha dato il là alla dissoluzione dell’ex Urss prima, all’area balcanica poi, risvegliando mai del tutto sopiti conflitti, ridisegnando vecchi confini e marcando nuove frontiere. Da lì accompagna il lettore di là dell’Atlantico, in Sudamerica e al confine (non frontiera) tra il Messico e gli Stati Uniti. Il suo racconto di quello che accade lungo il muro che separa i due Paesi, sembra un romanzo di Don Winsolw. Invece è la cruda realtà che schiaccia anche la più flebile speranza di una vita migliore appena di là dal confine tra El Paso e Ciudad Juarez.

E quando Fusi, senza seguire un arco temporale cronologico, tantomeno spaziale, torna verso l’Europa, si seguono con lui le briciole lasciate dalla storia che hanno prodotto la tragedia senza fine della Palestina e la guerra in Ucraina. «Dentro questo scenario – ha dichiarato in una recente intervista – il viaggio si sofferma sulla sorte dei più piccoli, dalla “raccolta dei ragazzi” praticata nel quindicesimo secolo dall’impero ottomano nelle terre di Bosnia, al sequestro dei neonati nel periodo della dittatura argentina, fino al rapimento dei bambini ucraini sulla frontiera del Donbass».

L’autore porta nel suo bagaglio, e le cita costantemente nel testo, letture che lo hanno accompagnato, da Marquez e Amado, a Pasternak a Borges, alla poesia in musica di Leonard Cohen e Joan Baez. Hanno scritto e cantato storie che sfioravano la realtà, mentre Anna Politkovskaja e Ilaria Alpi hanno raccontato la verità e, come Navalny hanno pagato con la vita.

«La vera frontiera che non si attraversa mai è quella tra la pelle nera e la pelle bianca», dice un giovane haitiano al giornalista. E invece, leggendo questo libro, la frontiera che non si attraversa mai è una scelta da cui non si torna indietro: mettersi dalla parte dei più forti o dei più deboli che non possono difendersi.

Fusi ha fatto la sua scelta. Si trova in questo libro come nel suo lungo lavoro di cronista, che in fondo non è altro che uno storico della contemporaneità. E in quanto tale racconta, «ma solo dopo essersi preso la responsabilità di aver capito», ha scritto Giovanni Floris nella prefazione.

C’è solo un momento in cui si concede di chiudere gli occhi e di riposare. È nell’ultimo capitolo, “Il canto delle balene”, «qui dove la terra finisce e il mare comincia», scrive citando Saramago. Un viaggio personale tra Puerto Lopez Mateos e la Baia Magdalena, in Messico, dove si va per vedere le balene. È qui che «il cronista chiude il vecchio quaderno. Guarda a ovest, nel barbaglio del mezzogiorno: gli sembra di scorgere là l’ultima pacifica frontiera. Là in fondo, dove appare una strettoia, quasi un corridoio di acque – prima turbolente, poi abbandonate – davanti all’isola Santa Margherita. Non più guerre, non più dolore. La terra si arrende esausta e il vasto mare deserto trionfa».

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