Diario di una spettatrice
Essere Marcello
Chiara Mastroianni diventa il padre Marcello, alla ricerca della sua identità. Ma il film di Christophe Honoré non è una biografia: è un lavoro che va alla ricerca della maschera che è in ognuno di noi
“Marcello, come here!”, urla la figlia travestita con la parrucca bionda e il generoso décolleté di Anita Ekberg, mentre gli scrosci di una fontana (che non è quella di Trevi) la travolgono e la inzuppano fino alle ossa e lei, imbarazzata per la finzione grottesca, scappa dalla vasca inseguita dalla troupe.
Guardando la prima scena del film Marcello mio di Christophe Honoré, in concorso a Cannes per la Palma d’oro e da oggi in sala, ho temuto il peggio, che cioè si ripetesse l’operazione non riuscita di Mi fanno male i capelli in cui Alba Rohrwacher si travestiva da Monica Vitti credendo per questo di diventarlo. Fortunatamente Marcello mio è tutta un’altra cosa: perché non è il biopic scontato che potevamo aspettarci a cento anni dalla nascita di Mastroianni, è invece un film sorprendente nel quale la figlia Chiara – senza bisogno di finzioni e make-up ma usando solo il suo viso nudo privo di qualsiasi trucco, al massimo due baffetti – non diventa suo padre Marcello, semplicemente lo è.
E questa metamorfosi impressionante avviene per gradi, scena dopo scena, sotto gli occhi di chi guarda comparire la faccia dell’uomo dentro il viso della donna, l’uomo che rivive in un gesto, in uno sguardo obliquo, un tic, un’occhiata ironica, quel tono profondo della voce che con noncuranza diceva e raccontava la vita in bilico tra verità e finzione, tra il crederci e il non crederci, insomma Marcello, l’attore più grande del cinema italiano.
La pellicola è innanzitutto la storia di un rapporto tra padre e figlia, su quanto sia profonda l’orma che il primo lascia nella seconda. E quando inevitabile arriva la domanda “chi sono?”, la domanda che si fa anche Chiara che fa lo stesso mestiere paterno e quindi più di altri si interroga su quale sia la sua vera identità, ecco che la faccia di Marcello appare nello specchio, la segue nei sogni, è ovunque come non può essere il viso della madre Catherine Deneuve, perché lei è lì, presente, non è ancora un fantasma.
Così una mattina Chiara decide di avventurarsi nel viaggio alla ricerca del padre che è in lei: indossa calzoni da uomo, bretelle da uomo, una camicia bianca, una cravatta scura, una giacca, nasconde i capelli sotto una parrucca da uomo, infila quegli stessi occhiali con la montatura nera e quel cappello nero da 8 e 1/2 e cammina per le strade di Parigi con la mano in tasca e l’eterna sigaretta tra le dita, esattamente come faceva Marcello. E la sorpresa sta nel fatto che non è un banale travestimento, lei diventa lui e lo fa naturalmente, con tale convinzione che finiamo per crederci.
Non racconto dove la porterà questo viaggio. Dirò invece che a farlo con lei c’è un gruppo di persone legate da sentimenti profondi: a cominciare da sua madre Catherine che nella pellicola è se stessa e che assiste con comprensibile preoccupazione alla metamorfosi della figlia che pretende di essere chiamata da tutti Marcello, ma poi ne è divertita e travolta fino al punto di rivedere in lei il suo antico amore. Ma più di sua madre il vero complice di questa metamorfosi è Fabrice Luchini, grande amico del padre che rimpiange di non aver mai recitato con lui (curiosamente qui finge anche di essere stato sposato a Catherine), che instaura con Chiara un’amicizia paradossalmente virile tanto è disposto a credere al ritorno di Marcello. Con loro arrivano in scena anche gli amori di Chiara: il suo primo fidanzato Melvil Poupaud, attore e regista francese che abbiamo visto in Coup de chance di Woody Allen, e l’ex marito, il cantante Benjamin Biolay. È anche grazie alla costruzione dei capitoli di una storia che non è finzione ma realtà che lo spettatore si lascia coinvolgere volentieri dalla pellicola e guarda con crescente tenerezza alla figlia e con nostalgia al padre che non c’è più.
Un solo appunto: tagliare qualche scena ripetitiva avrebbe dato un altro ritmo alla pellicola. In fondo bastavano meno di due ore per ricordarci quanto ci manca Marcello.