Leo Carlesimo
«La libertà di Diana»/4

L’ultima cena

«Come ti salta in mente di dirlo a cena, davanti a tutti? Perché non me ne hai parlato prima?»: con la quarta puntata si conclude il romanzo di Leo Carlesimo per i lettori di Succedeoggi

Riassunto delle parti 1, 2 e 3. Diana e Lucio – una coppia di quarantenni – tutti gli anni alla ripresa scolastica si ritrovano a cena con gli ex-compagni di classe, nei dintorni del loro vecchio liceo. A una di queste cene la coppia annuncia di aver acquistato una tenuta in campagna. Mauro, fin dai tempi del liceo vagamente innamorato di Diana, intuisce in questa decisione un segnale di crisi tra i due. In effetti, già a scuola le incompatibilità tra Diana e Lucio erano evidenti. Diana era un’allieva studiosa, brillante; Lucio un po’ un arrogante sbruffoncello. Diana proveniva dal meridione, da un’austera famiglia di magistrati. Quella di Lucio è una famiglia di commercianti arricchiti. Superando fortunatamente o sfortunatamente svariate avversità, i due dopo essersi lasciati si rincontrano, si sposano, mettono su famiglia. Hanno ormai quindici anni di matrimonio alle spalle, tre figli, una situazione economica invidiabile. Ma ci sono quelle vecchie crepe, tra loro, che riemergono inaspettatamente a seguito di un episodio da nulla, che innesca una spirale di cui Mauro, leggendo cinicamente il contesto, passo dopo passo, attraverso quelle cene tra ex-liceali, vede con chiarezza le inevitabili conclusioni.


La cena con gli ex-compagni, quell’anno, non si tenne nelle vicinanze del Giulio, ma in un luogo appena un po’ decentrato. Quartiere Africano, Sedia del Diavolo, una trattoria abruzzese affacciata alla piazza. Il monumento funebre in laterizio e cotto si erge al centro della rotonda. Un tempo, nell’agro romano prossimo alla confluenza tra l’Aniene e il Tevere, lungo l’antica via Nomentana, quel rudere in parte crollato accoglieva bivacchi di pastori. Pare che i loro fuochi, rosseggiando nella notte, abbiano attratto sull’antica tomba il nome cattolico e sinistro che l’accompagnò per secoli. Nome di recente abbandonato: negli anni Cinquanta gli abitanti del quartiere chiesero e ottennero che la piazza della Sedia, attorno alla quale non si raccoglievano più greggi – e nemmeno demoni, streghe o spettri – ma le loro case, assumesse il più docile e rassicurante nome del pagano che l’edificò: Elio Callistio, un liberto dell’imperatore Adriano. Però, malgrado loro, il nome coniato dalla fantasia popolare rimase incrostato alle mura. Come certi affreschi devianti e blasfemi, che mani di pittura accademica stese nel vano intento di coprirli non riescono a cancellare.

La tavolata da dodici era raccolta in una specie di cripta con soffitti a volta ribassata, lo scantinato di un vecchio palazzo di periferia. Lì un trattore aveva aperto una taverna, cui s’accedeva per una scaletta che scendeva dalla strada. Quel tipo di locali che una volta si chiamavano ‘buche’, mezzo interrate, con le finestrelle alte e strette poco al di sotto del soffitto, tagliate orizzontali nei muri spessi, che all’esterno s’aprivano ad altezza marciapiede. L’insegna recitava: Buca Abruzzi. L’interno era ben illuminato, con appliques in ferro battuto alle pareti, che emanavano una luce gialla, rinforzata dal gran lampadario ricavato da una ruota di carro, che pendeva sul tavolaccio affissa a una catena. Si parlava di com’era il posto un quarto di secolo prima, quando i dodici commensali andavano a scuola e qualcuno di loro abitava nel quartiere. A un tratto, senza che c’entrasse nulla con quel che stavano dicendo, Diana buttò lì:

“Sapete, ne ho abbastanza dell’università. Sto pensando di fare un po’ di professione…” Sorriso. La cui durezza attrasse subito l’attenzione di tutti. Mauro intuì quel che stava per dire, riconobbe nella voce di Diana il suo tono da resa dei conti.

“Come sarebbe?” Chiese Lucio. “Che significa, ne hai abbastanza dell’università?”

“Oh, beh…” rispose lei. “Non intendo mollare del tutto la Sapienza, questo no… Solo, penso di aprire uno studio da psicologa, avviare un’attività professionale. Fuori dalla muffa del dipartimento. Qualcosa di pratico e privato.”

Nella pausa di silenzio che seguì, il sorriso s’irrigidì sulle labbra di Diana. Mauro distolse lo sguardo, evitò di fissare sia lei che Lucio.

“Ma… e da quando?” Farfugliò lui.

“E’ un po’ che ci penso.”

“Non me ne hai mai parlato…”

“Beh, è solo un’idea… la sto ancora elaborando. Vediamo…”

“Potevi dirmelo.”

“Te lo dico ora.”

“Ti sembra il modo. E l’occasione.”

“Non lo so. Non ci ho pensato molto, al modo. M’è venuta quest’idea e la dico.”

“E dove vorresti aprirlo, ’sto studio?”

“Nella casa di via Nizza. S’è liberata dall’inquilino. Qualche settimana fa.”

Lucio non fece altre domande. Chinò il capo sul piatto e riprese a mangiare. La breve pausa d’imbarazzato silenzio che seguì fu interrotta dal primo che ebbe la prontezza di cambiare argomento. Si parlò di viaggi, di vacanze estive appena trascorse. Lo sguardo di Mauro continuava a evitare sia Lucio che Diana.

Finì più presto del solito, quella cena. I primi ad andarsene furono loro due. Quando lui accampò un leggero mal di testa e disse che forse era il caso di rientrare, Diana acconsentì subito. Fu docile, accomodante. Affettuosa nei saluti. Salirono in macchina. Mentre percorrevano l’ultimo tratto di viale Libia, ormai in vista di piazza Sant’Emerenziana, lui disse:

“Questo è un colpo basso.”

“Perché? Che ci trovi che non va?”

“Come ti salta in mente di dirlo a cena, davanti a tutti? Perché non me ne hai parlato prima?”

Diana sospirò. Si prese tutto il tempo che le occorreva per prepararla. Poi scandì, con studiata noncuranza:

“Non saresti stato d’accordo… Ho preferito risparmiarci discussioni inutili. Tanto ormai ho deciso. Meglio metterti davanti al fatto compiuto.”

Lucio deglutì.

“Basso eccome… parecchio sotto la cintura. Allora è così. A questo punto, siamo…”

Piazza Annibaliano, imbocco di Corso Trieste.

“Senti. Ho quarant’anni. I ragazzi ormai sono grandi. Ho bisogno di aprirmi nuovi spazi. Nel lavoro, intendo. E’ solo lavoro.”

“Grandi! Sono dei cuccioli, entrano ora nell’adolescenza.”

“E allora? Non li sto mica lasciando. Né loro né te. Inizio soltanto un’attività. E voglio farlo di testa mia.”

Piazza Istria, proseguono lungo Corso Trieste.

“Ma perché non parlarmene?”

“Te l’ho appena detto. Come vedi, non sei d’accordo. Ma non avresti potuto impedirmelo. Ho solo evitato un sacco di fastidi a tutt’e due.”

“Bella roba… Ti pare una risposta? Per evitare discussioni, mi nascondi le cose?”

“Non dirmi che tu non mi hai mai nascosto niente…”

“Questo che c’entra?”

“Lo vedi? Non è meglio saltarla, ’sta roba? Cosa mi nascondi tu, cosa ti nascondo io… A che serve? Lasciamo perdere, stiamo ai fatti. Anzi io, seppur con un po’ di ritardo, il fatto mio te l’ho detto…”

Al semaforo svoltano a destra, salgono per via Chiana.

“Al ristorante. Davanti a tutti. Bella figura, mi hai fatto fare.”

“Allora è questo che ti disturba… La figura! Beh, caro, di questo proprio non me ne frega un cazzo. Non ho tempo di occuparmi di queste stronzate.”

“Stronzate, eh?… Lo sai cosa penseranno di te e di me?”

“Quello che vogliono, c’è libertà di pensiero.”

“Sicuro, visto che la pensi così… però non coinvolgermi. Parlane pure con chi vuoi, ma non davanti a me. Basta che non lo fai davanti a me!… E fregatene pure, del giudizio altrui. Tanto poi la paghi. Lo sai che la paghi.”

“Magari ne vale la pena.”

Traversano la Salaria, imboccano via Panama, sono quasi arrivati.

“E quando hai in mente di aprirlo, il tuo dannato studio?”

“Tra poco. L’appartamento è pronto. Ci ho fatto dei lavori…”

“Ci hai fatto dei lavori.”

“Sì. Mi ha aiutato Mauro. Sai, con la sua ditta… Ho dato una ripulita, ristrutturato un po’… Ho già la targa, posso aprire domani.”

 

Tra le tante cose inutili che Lucio pensò, disse e fece nei giorni che seguirono, ci fu anche il chiarimento con Mauro. Gli fece una telefonata piuttosto alterata il giorno dopo la cena e lo costrinse a un incontro in un bar del quartiere. Un mattino, verso le nove, lungo la strada che da piazza Verbano sale alla Salaria.

Quando Lucio arrivò, in anticipo sull’orario convenuto, Mauro stava facendo colazione a uno dei tavolini fuori, sotto una specie di pergola. Quel bar è noto in zona per i cornetti buoni.

“Diana s’è rivolta a te per ristrutturare l’appartamento di via Nizza?”

“Beh, sì…”

“E non mi dici niente? Ma che cazzo…” Picchiò il pugno sul tavolo. Mauro smise d’inzuppare il cornetto nel cappuccino.

“Se non ti ha detto niente lei, dovevo farlo io?”

“Come sarebbe… sei mio amico o no?”

“Sono amico anche suo e… senti, se voleva parlartene, l’avrebbe fatto lei. In caso contrario, che diritto avevo io di intervenire?”

“Ah, è così! Proprio un bell’amico.”

“Te l’ho detto, lo sono di entrambi. O di nessuno dei due, se preferisci. Lasciami fuori dalle tue beghe coniugali. Io ho solo fatto il mio lavoro. Come architetto. Nient’altro.”

“Mi sa che ci sei entrato eccome, nelle mie beghe coniugali! Ho una gran voglia…”

Lucio agitò le mani, s’alzò in piedi di scatto, quasi rovesciò la sedia. Ma finì lì. Fu costretto a incassare anche quel colpo. Potevano mettersi le mani addosso a quarant’anni, in mezzo alla strada? Volse le spalle a Mauro. Se ne andò a gran passi furiosi. Mauro ebbe il buon gusto d’interrompere la colazione, almeno finché Lucio non fu sparito alla vista. Dopodiché chiamò il cameriere. Ordinò un altro cappuccino. Con quel pugno sul tavolo, Lucio gliene aveva rovesciata metà. Finì con calma la sua colazione.

 

Diana iniziò la sua attività privata. Psicologa dell’età dello sviluppo, dei problemi adolescenziali di comportamento, relazione ed emotività. Quel che insegnava all’università, né più né meno. Il campo che aveva coltivato per vent’anni, di cui aveva letto, studiato e discusso tanto; e praticato mai. Dopo tutto quel tempo, decise di cimentarsi con l’altro corno della questione, quello del fare. Misurare ciò che tutte quelle teorie e modelli valevano nel mondo reale, si mise in gioco così. Se c’era una cosa che Lucio poteva averle insegnato nella loro vita comune, una sola, era proprio quella: un lavoro che agisce sugli altri, che produce conseguenze nella realtà, effetti che si vedono, si toccano; un’attività che offre subito un riscontro è importante, dà senso alle cose…

Cominciò con pochi casi semplici di ragazzi con difficoltà relazionali in famiglia, a scuola. Adolescenti con disturbi alimentari o di comportamento. Oppure deficit di autostima, autosegregazioni domestiche, eccetera. Le arrivarono da famiglie che ruotavano attorno ai suoi colleghi d’università. E a poco a poco il cerchio si allargò e si approfondì. I ragazzi aumentarono. Si aggravarono i problemi. Casi di reazioni violente, con coetanei o adulti. Episodi di bullismo. Manie persecutorie, attacchi di autolesionismo.

Risultò che era brava, nel suo lavoro, molto brava. Attenta, intuitiva, sensibile; dotata delle conoscenze e degli strumenti che servono a leggere i comportamenti altrui, entrare negli umori adolescenziali; e distinguere, analizzare, dipanare, provare a capire; ma anche delicata, piena di tatto nel gestire le reazioni dei suoi giovani pazienti e dell’ambiente familiare e sociale che avevano attorno. In poco tempo, il suo studio prese quota. Aveva molti clienti. Non più solo famiglie con adolescenti problematici. Anche il tribunale dei minori, alcuni istituti correzionali e carceri minorili si rivolsero a lei, la presero come consulente.

Quando questo accadde, Lucio ormai aveva accettato la nuova professione di sua moglie. O, per meglio dire, aveva ingoiato il rospo. Che altro poteva fare? V’intuiva forse un pericolo, ma per il momento era solo lavoro. Un lavoro molto intenso, però: tra l’attività didattica all’università e gli impegni professionali, a studio o nelle istituzioni che la convocavano, Diana aveva da fare tutto il giorno, tornava a casa tardi, la sera, spesso saltava la cena, quasi sempre doveva lavorare anche il week-end. Ma tornava, però, tornava sempre. Restò a vivere a via Panama, la sua casa era ancora quella. Anche se passava sempre più tempo nello studio di via Nizza e a un certo punto, quando gli incarichi aumentarono e l’impegno s’intensificò, qualche volta, se le toccava studiare un caso fino a tardi la sera e poi aveva di nuovo degli incontri la mattina presto, ci si fermava anche a dormire.

Questo avvenne inizialmente di rado, poi sempre più spesso nel corso della settimana. Nei week-end, però, cercava di dormire a via Panama, stare un po’ in famiglia. Quando Lucio le rimproverava quel progressivo distacco, lei minimizzava. Era lavoro, soltanto lavoro. Oppure lasciava correre, divagava, non rispondeva. Non lo faceva in malafede, davvero aveva la sensazione che tutto avvenisse meccanicamente, non per sua scelta. Era un’evoluzione indipendente dalla sua volontà. Semplicemente, non ostacolò il corso naturale delle cose. E se queste la spingevano sempre più lontano da una famiglia che in fondo non sentiva sua… Constatò, accettò e assecondò divergenze che erano sempre esistite. Con suo marito, anche coi figli.

Ciò causò forse qualche turbamento ai ragazzi – problemi adolescenziali che lei era addestratissima a gestire – e produsse in Lucio una punta di sofferenza, ma soprattutto molta rabbia e rancore. Però non fece soffrire troppo Diana: mentirebbe se sostenesse d’aver sofferto a sua volta, sia pur di riflesso. La sua scelta egoistica, la fece senza scrupoli, lucidamente. Stavolta non cercò, come aveva fatto con sua madre, di autoingannarsi o indorarsi la pillola. Era com’era. Le cose erano com’erano. Forse sarebbe andata meglio per tutti. Forse. Ma quand’anche così non fosse stato, o non per tutti, lei aveva fatto la sua scelta.

 

Ci mise un po’ a percorrere questo tratto di strada, a compiere tutto il tragitto. Mentre si distaccava dalla famiglia, mantenne il ruolo all’università, e proprio in quel periodo fu promossa associata. Solo che, a parte la didattica – le lezioni e gli esami, esclusivamente quelli; non le fregava più niente del resto: pubblicazioni, magari su riviste importanti, congressi, eccetera – non dava più molto peso a quel ramo della sua attività. Aveva altro, in campo professionale: lo studio la inondava di lavoro e i casi umani in cui s’imbatté – in tribunale, nelle carceri – davano a quel che faceva un sapore diverso. L’aspetto pratico della questione, il lato del fare: Lucio aveva ragione, contava di più. Di questo gli era debitrice, era diventata più simile a lui.

Ormai Diana dormiva più di metà delle notti a via Nizza e solo occasionalmente in via Panama, viveva in realtà due vite scisse, una delle quali ben più intensa e appagante dell’altra. Aveva visto di quando in quando Mauro, in quel periodo, sempre così, da amici: un caffè ogni tanto, qualche consulenza professionale come architetto, arredatore… Quando decise di ristrutturare meglio e modernizzare anche l’altra metà della casa, quella privata, visto che ci passava sempre più tempo – rifare la cucina, il soggiorno, la zona notte… – venne naturale ricorrere di nuovo a Mauro, far organizzare i lavori a lui.

Per questo si videro di frequente – in un certo periodo quasi tutti i giorni – nella casa di via Nizza, a discutere di parquet, carte da parati, mobilio, lampade, cucine. Nel corso di uno di quegli incontri, finirono a letto. Doveva succedere prima o poi.

 

Dopodiché, Diana si decise a mettere definitivamente le carte in tavola con suo marito. Si separarono. Lei andò a vivere nella nuova casa di via Nizza, interamente ristrutturata. I ragazzi, i suoi tre figli che restarono a via Panama con Lucio ed Elvira, prese a vederli regolarmente, quasi tutte le settimane, per quanto i suoi impegni di lavoro sempre più incalzanti le consentivano. Almeno una volta al mese cercava di invitarli tutt’e tre a cena da lei. Ma erano grandi, ormai, e appartenevano a quel ramo, la sua ex-famiglia, con cui lei aveva ormai sempre meno in comune.

Non se lo rimproverò più di tanto. Ormai aveva imparato a fare i conti onestamente con se stessa, col proprio sano o insano egoismo, non ebbe bisogno di fingere d’aver sofferto di più. Era convinta che neanche loro, i ragazzi, avessero sofferto poi molto; e comunque, a dirla tutta, non le importava. Quanto a Lucio – che  non la prese affatto bene, né con Diana né con Mauro – di lui gliene importava ancor meno. La rottura tra loro decretò una buona volta la fine delle inutili cene tra ex-compagni del Giulio.

 

Vedeva Mauro, di quando in quando. Occasionalmente ci andava a letto. Ma non aveva mai pensato a nulla di veramente impegnativo, con lui. Sicché fu davvero stupita quando una notte, dopo essere stati insieme nella sua casa di via Nizza, nella sua rinnovata camera da letto che non conservava più nulla – né tinte, né luci, né mobilio e neppure disposizione dei mobili e articolazione degli spazi – della vecchia stanza di sua madre, lui le disse:

“Che ne diresti se venissi a vivere qui? Oppure potresti venire a stare tu da me, se preferisci…”

Lei cadde proprio dalla nuvole. Lo guardò. Aveva appena firmato la separazione, con Lucio. Forse era quella, nella zucca di Mauro, la scintilla che aveva innescato la sua bizzarra proposta… o forse il fatto che avevano appena fatto sesso insieme, una questione d’atmosfera; oppure era la sua nuova casa completamente ristrutturata, tutta nuova, magari era quello, il compimento dell’opera… oppure chissà, una miriade di altre cause concomitanti e del tutto fortuite, che avevano ficcato in zucca a quell’imbecille…

“Che ti salta in mente?” Disse lei.

“Beh, sei libera, ora… io sono libero… stiamo bene insieme…”

“Certo, sono libera. Per la prima vota nella mia vita adulta. Anzi no, nella mia vita intera.”

Tagliò corto. Le ci vollero meno di tre minuti a ragguagliarlo. Mise subito in chiaro le cose e gli chiuse ogni spazio. Potevano andare a cena, vedersi e parlare. E scopare, di quando in quando. Questo era tutto. Ciascuno a casa sua.

 

Si vedono ancora, con Mauro, abbastanza spesso. E’ l’uomo con cui esce di più. Lei frequenta anche altri uomini, secondo i casi. Non sa se pure lui frequenti altre donne e non gliene importa.

Per i suoi quarantacinque anni, ha deciso di dare una festicciola. Niente di grandioso, una semplice cena tra amici, non più di una dozzina di persone, a casa sua. Non se la sente di invitarne di più. Dovrà cucinare, apparecchiare, imbandire… dodici al massimo, il numero ricorrente delle sue cene. Del resto in sala da pranzo non ce n’entrano più di così. Dovrà quindi selezionare, escludere. Qualche amica, qualche collega d’università, qualcuno del tribunale, qualche cliente cui è rimasta affezionata… tira giù una prima lista. Poi la rifà. Poi la rifà di nuovo. Non c’è verso… è composta quasi esclusivamente da donne. Nei primi undici nomi, oltre lei, l’unico uomo che compare è proprio Mauro. Lui sì, per lui un posto lo trova. Ma è l’unico. Quando glielo dice, al telefono, lui obietta:

“Come sarebbe? Dai una festa di compleanno con undici donne? E io sarei l’unico maschio?”

“Beh, la lista mi viene così… Non posso lasciar fuori nessuna delle altre dieci. E in più di dodici non ci stiamo, a tavola…”

“Ma dico, sei matta? Undici donne e me…”

“Perché, che c’è che non va?”

“Come sarebbe, cosa c’è che non va? Che razza di serata mi proponi? Beh, senti… io non vengo. T’invito magari un’altra volta a cena, solo te e me, per darti il regalo…”

Sostituì il nome di Mauro con la prima delle amiche escluse. La sera della festa, quando si ritrovò a tavola con le sue undici invitate, guardandole, Diana si rese conto di un’altra cosa.

“Certo però…” disse. “Dodici donne. E al momento, nessuna accoppiata. Tutte single. E tra divorziate e separate, oppure quelle che hanno appena interrotto una storia, a farlo siamo sempre state noi. Mollati. Li abbiamo proprio fatti fuori tutti, eh?”.


4. Fine. Il disegno accanto al titolo è di Giulia Cavallini.

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