A proposito di "Assalto alla collina"
Il romanzo della storia
Il nuovo libro di Nicola Bottiglieri è a metà fra storia, il mémoir e narrativa sul crinale della Guerra e della LIberazione. Per andare in cerca di una vitalità che contrasti il destino
“Sono il figlio della gioia, perché fui concepito alla fine d’aprile del ’45, quando i miei genitori seppero che la guerra era finita. Si erano sposati il 5 gennaio del ’40, lui trentacinque anni, carabiniere, mia madre venti, casalinga, dopo un breve fidanzamento. Qualche mese prima, mio padre era andato a Strangolagalli a chiedere la mano della figlia ad Arcangelo Viselli, portando come regalo una busta di chicchi di caffè e un pacco di zucchero. Nessuno aveva mai bevuto la nera bevanda in campagna, perciò non c’era un macinino in casa. Si ricorse a quello del pepe e appena la granella cominciò a bollire si sprigionò un profumo pungente, che provocò starnuti quando le tazze furono portate alle labbra. «Non è questo il sapore» disse mio padre, «il caffè non fa starnutire.»”- eccolo, battere generoso, e solare, il cuore di questo libro, Assalto alla collina di Nicola Bottiglieri (Bertoni, 198 pagine, 18 Euro), che, per cominciare, sfoggia una sana natura letteraria ibridata in cui coincidono, intrecciandosi, generi di scrittura che vanno dal mémoir al saggio storiografico al romanzo familiare alla narrazione che imbriglia generazioni diverse creando ponti inattesi fra di esse fino al saggio personale o personal essay che ha avuto la sua stagione più robusta nell’intervallo illuminista inglese tra Età Augustea e Romanticismo nella persona di Samuel Johnson ma deve molto a Francis Bacon e a David Hume, per restare sulle tracce del filone inglese, e ancor più, e ancor prima, al vero iniziatore del genere (senza genere o per eccesso di generi), cioè a Michel de Montaigne e alla sua filosofia della contraddizione o alla invenzione del brouillard senza ordine temporale.
Quest’ultimo è un criterio (scriteriato) che dopotutto affiora nel libro di Nicola Bottiglieri: da studioso rigoroso e severo, l’autore si affida a un lavoro di documentazione sul campo e di ascolto delle voci che ancora o nel tempo hanno custodito memoria del passaggio storico qui raccontato (tra poco se ne dirà), ricavando un affresco corale in cui tutte le testimonianze sono tenute nella dovuta considerazione per la composizione il più possibile completa del quadro – non solo storico tout court, ma principalmente umano.
Per ragioni storiche, per fedeltà alle proprie origini, per affetto verso le radici familiari, Nicola Bottiglieri ci racconta un tassello della disastrosa storia nazionale all’indomani dell’8 settembre: ammariamo senza tanti preamboli nel pantano di incresciosa transizione che seguì al rovesciamento della posizione italiana, dopo venti anni di fascismo e poco meno di alleanza scellerata con la Germania hitleriana, seguito, come tutti sappiamo, all’armistizio diramato dal Maresciallo Badoglio, che sembrò la fine attesa della guerra e invece fece soprattutto dell’area centrale italiana, lungo una dorsale che segnava già la barriera geopolitica tra Regno di Napoli e resto d’Italia, un luogo indeterminato, su cui prese a infuriare l’ostinazione americana a risalire l’Italia per liberarla e la rabbiosa rappresaglia dei tedeschi occupanti cioè insider traders dopo esser stati rumorosi correi e fratelli ingombranti – in mezzo, il Raggruppamento Motorizzato, un drappello di soldati italiani, irriducibilmente fedeli alla Patria, e alla dignità di chi ha giurato di tutelarla, poco importava ormai se quel giuramento era stato reso a un re piccoletto, sciaboletta, che nella sua tonta abilità riuscì a voltare le spalle persino al ducetto che due decenni prima lo aveva irridentemente impallinato.
Fatto salvo questo quadro, ciò che colpisce in questo libro, che potremmo definire Romanzo della Storia, è la capacità dell’autore di avvolgerci in un racconto corale a molte voci da cui emergono due elementi: la storia familiare (e da qui il resoconto, pieno di carità e amore e pietà, delle vicende che hanno stritolato ex-soldati o soldati riarruolati in file nuove come i numerosi civili periti nelle vicende di guerra raccontate), e la lucidità di denuncia che è del cittadino e dello storico. La lucidità di cui parlo potrebbe persino essere scambiata – e sarebbe un errore – per freddezza, per distacco, per disumanità: è al contrario il risultato della sana distanza e della ricostruzione accurata, ottenuta con ogni mezzo di osservazione e reperimento di materiali, utile a una testimonianza compiuta e completa, per illuminare fatti che riguardano un nodo, minuscolo quanto a territorio, la collina di Mignano Montelungo (e la prossimità di San Pietro Infine), diventato un alveo infernale, e però un’area di enorme dignità umana in cui quegli italiani, resistenti, hanno scelto di affrontare la trappola avuta in sorte, le forche caudine in cui sono rimasti presi, e di attraversare la loro sorte, ricorrente come vediamo anche oggi, di ostaggi di circostanze belliche e storiche decise altrove.
Da un lato la coralità del libro ricorda questa stessa qualità apparsa in L’ordine è già stato eseguito di Alessandro Portelli (Donzelli 1998), concentrato su tutt’altro episodio (via Rasella e le Fosse Ardeatine); e anche la qualità fredda ma densa di sostanza umana e dettagli oggettivi dei racconti di Primo Levi sui campi e poi sul lungo viaggio di ritorno, e sulla natura inaudita, incredibile della testimonianza; come pure l’abilità di raffreddamento nella sistematica oggettivazione metodologica del fenomeno dei lager, tipico anche se non esclusivo prodotto del nazismo, nei saggi dello storico Vittorio Emanuele Giuntella. Dall’altro lato, però, forse anche con più forza, il valore del libro consiste nella sua capacità di chiarirci ancora, se ancora ce ne fosse bisogno, quale sia il vero limite della libertà, individuale e collettiva: negli anni Settanta era costume ed uso ricorrente dire che la libertà personale finisce laddove comincia la libertà altrui, lasciando campo all’ipotesi che la vicendevole opera di arginamento, in quell’insieme virtuoso che è la comunità, potesse compiutamente definire i confini dell’agire personale in armonia con altri. Noi sappiamo che questa idea così pura, innocente (innocua?) di libertà è del tutto illusoria, cioè è ottativa: un desiderio, solo una teoria. Il racconto di guerra in cui dopotutto questo libro consiste ci ricongiunge alle vicende della nostra attualità, che non si limita certo al conflitto russo-ucraino e israelo-palestinese (delimitazioni dopotutto menzognere o perlomeno incomplete), ma che dovremmo meglio illuminare, andando indietro nei decenni, di luce retrospettiva, includendo i numerosi, feroci conflitti che tengono in piedi per scommessa il mondo, e ci rivelano quanto poco gli individui o le comunità siano centrali nella propria (presunta) libertà (cioè auto-determinazione, e quanto invece tutti noi siamo, spesso inconsapevolmente, ostaggi, ripeto, agiti da circostanze su cui non abbiamo né mai potremmo avere un diretto, e neppure remoto, controllo.
Leggere Assalto alla collina riporta alla memoria Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010) di Helena Janeczek, in cui emerge il ruolo di Cassino e di Montecassino proprio nella fase storica raccontata in questo libro (che invece accende i riflettori su luoghi e fatti geo-strategicamente al confine, però inerenti e di sostegno al destino della città martire rasa al suolo – due sintagmi che dal 1944 sintetizzano il senso della vita di ogni cassinese) e affiorano le storie dei caduti sepolti nei molti cimiteri militari, tra cui il cimitero polacco (Helena Janeczek è tedesca per nascita e di famiglia polacca), ma anche dei molti reduci e dei loro pronipoti, piovuti da ogni angolo del globo nel nostro territorio per rievocare anno dopo anno sia la distruzione che la ricostruzione. E poi fa tornare in mente i romanzi-testimonianza, intessuti proprio di documentazione e storia familiare, di Anna (nata Marianna) Barone, tra cui Don Ansé e La primavera non è tornata a Cassino (usciti negli anni Cinquanta e ripubblicati nel 2014 dalla casa molisana Edizioni Eva), che illuminano il destino di Cassino e di San Pietro Infine, contigua quest’ultima, e dopotutto consorte, a Mignano Montelungo (il luogo al centro di questo Assalto alla collina, attraverso le traversie delle due famiglie, Viselli e Bottiglieri, da cui l’autore proviene) – in questo teatro di guerra abbandonato dai tedeschi e presto infestato di americani, con gli italiani incastrati nel mezzo, si aggirava anche come operatore di guerra il regista John Huston che filmò proprio le incursioni su San Pietro Infine e Mignano Moltelungo fino alla distruzione di Cassino e Montecassino, documentate anche da Don Martino Matronola in alcuni libri di testimonianza poiché, da monaco dell’abbazia e priore dei benedettini, fu sempre al fianco dell’Abate Diamare e con lui assistette alla spoliazione-salvataggio dei tesori custoditi da secoli nel monastero, solo dopo recuperati ed esposti nell’annesso museo, voluto da lui in persona, una volta che, nel 1973, divenne abate e vescovo.
La nascita di un figlio dopo una guerra così devastante è raccontata proprio come una vittoria, l’unica degna d’essere menzionata, ed è come un tornare a riveder le stelle: la stessa sensazione di sbarco, e percezione di rinascita, che coglie chi legga i libri di Emilio Lussu, grande traversatore di ben due guerre mondiali il cui esito finale fu, nella Roma città aperta prima e poi finalmente liberata, la nascita del figlio Giovanni, avuto con Joyce (Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti) Lussu, sua consorte in ogni lotta civile: Emilio e Joyce Lussu che sono stati paladini della disobbedienza civile, oppositori clandestini senza risparmio e con arguzia nei confronti di un regime ottuso e incivile fin quando è stato possibile rovesciarlo e tornare alla società civile.
La nascita sull’orlo della liberazione è un’affermazione della vita sulla pulsione di morte che sembra sempre la sola protagonista, incontrastata, della Storia umana; e Assalto alla collina di Nicola Bottiglieri custodisce e tramanda l’alternativa vitale che ciascuno tenta di opporre alla macchina, immane e mostruosa, della guerra, cioè “uno scandalo che dura da diecimila anni”, come recita il sottotitolo del romanzo senza sconti né edulcorazioni di Elsa Morante.