Periscopio (globale)
Ricordate Ionesco?
Ritratto di Eugéne Ionesco, scrittore rumeno trapiantato in Francia, qualche decennio fa molto di moda quale protagonista della stagione del "teatro dell'assurdo" ma oggi (ingiustamente) dimenticato
C’è un equivoco di fondo, credo, nella ricezione del teatro di Ionesco e nel suo tradizionale incasellamento nella comoda e un po’ fuorviante categoria di “teatro dell’assurdo”, seguendo il famoso saggio del drammaturgo e saggista Martin Esslin dal titolo, appunto, The Theatre of the Absurd (1961). È certo che tutta l’opera teatrale di Ionesco ruota intorno a una descrizione particolareggiata di un’esistenza, quella di tutti noi, oscura e assurda, nel senso che non vogliamo in alcun modo riconoscerla per quello che effettivamente è, accettandone le sfasature logiche e le manchevolezze, e che questa descrizione avviene spesso attraverso deformazioni grottesche e allucinatorie. D’altro canto, la sua opera è stata però così completamente destoricizzata, come se situazioni e dialoghi “assurdi”, appunto, cadessero dal cielo o nascessero semplicemente, senza un motivo apparente, in qualche recesso del cervello dell’autore, e non fossero frutti del suo corpo a corpo con il mondo che lo circonda; non solo, ma si è voluto accostare Ionesco un po’ forzosamente ad autori come Beckett, Genet o Adamov che in definitiva con lui hanno davvero poco in comune, se si astrae da una percezione comune dell’incongruenza del mondo e dall’altrettanto comune esigenza di dare una risposta (letteraria e teatrale) diversa e inedita alle sfide poste da un esistere sempre più frammentato e incomprensibile.
Se riparliamo oggi di Ionesco, è anzitutto perché fra qualche giorno ricorre il trentennale della morte, avvenuta a Parigi il 28 marzo 1994, ma anche perché della sua opera ci sembra che si discuta sempre meno, tanto da parer anzi relegata, dopo essere stata molto in voga tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, in una specie di stanco dimenticatoio.
L’assurdità della vita, o se vogliamo la sua indifferente casualità, è presente fin da subito nella biografia di Ionesco. Nato in Romania, a Slatina, il 26 novembre 1909 (e non nel 1912, come tenterà lui stesso di far credere, forse per fingersi molto più giovane di Beckett), di madre franco-rumena, Eugen Ionescu (questo il nome all’anagrafe) emigra a Parigi con la famiglia già nel 1913. Tre anni più tardi, a seguito della dichiarazione di guerra della Romania alla Germania, il padre, richiamato alle armi, è costretto a rientrare e scompare, tanto che la famiglia lo crede disperso. Sarà poi invece ritrovato vivo e vegeto nonché intenzionato a divorziare e risposarsi, come presto farà. Rimasto a Parigi con la madre, di discendenza ebraica – cosa che Ionesco terrà quanto più a lungo possibile nascosta –, nel 1925 Eugen, assieme alla sorella minore, è costretto a tornare a Bucarest perché nel frattempo il padre ha ottenuto la custodia dei figli. Il difficile rapporto con il padre magistrato, piuttosto tirannico, che vorrebbe farne un ingegnere, e con l’esecrata matrigna, che non riesce ad avere figli propri e detesta quelli acquisiti, fa sì che appena possibile Eugen si riunisca alla madre, rientrata a sua volta in Romania. Ottiene l’indipendenza economica andando a lavorare in banca, comincia a frequentare gli ambienti intellettuali e conosce la futura moglie, Rodica Burileanu. Terminati gli studi di letteratura francese, insegna nei licei, pubblica articoli e libri – susciterà un certo scalpore in particolare la raccolta Nu, del 1934, con la sua descrizione sarcastica degli ambienti intellettuali rumeni – e due anni più tardi sposa Rodica. Nel 1938 ottiene una borsa di studio per scrivere, a Parigi, una tesi su Baudelaire, e dalla Francia continua a partecipare alla vita culturale, inviando alle riviste rumene articoli e saggi. Sembrerebbe andare tutto per il meglio, insomma, se solo la Storia, quella con la maiuscola, non ci mettesse lo zampino: scoppia la guerra, la Francia è occupata ed Eugen è costretto a rientrare in patria, dove sarà riformato per ragioni di salute ma non sfuggirà alla pesante atmosfera generale derivante dal crollo del regime carlista, dall’ascesa della Guardia di ferro e dalla rapida e inarrestabile fascistizzazione del paese, diviso in due fra una zona occupata dai russi e l’altra “protetta” dai tedeschi. In questo contesto, e in circostanze ancora oggi da chiarire, Eugen riesce a dileguarsi ancora una volta, lasciando la Romania per sempre. Patto col diavolo o semplice combinazione, sia pur sempre frutto di conoscenze e pressioni? Non lo sapremo mai con certezza. Il fatto, comunque, è che nel luglio 1942 ottiene un posto di addetto stampa all’ambasciata romena nella provinciale e collaborazionista Vichy, dove nel 1944 nascerà l’unica sua figlia, Marie-France. E a Vichy, capitale dell’omonima Repubblica, l’ambasciata era per forza di cose nell’orbita delle forze d’occupazione tedesche.
Cosa abbia fatto concretamente Eugen (ormai Eugène) a Vichy – ferma restando l’assenza di vere e proprie mansioni strettamente politiche – resta oggetto di speculazioni e non è mai stato chiarito in modo inequivocabile. Stando alla testimonianza della figlia, Ionesco riuscì nell’impresa di farsi destinare a Vichy non per presunte simpatie naziste, mai provate e da lui sempre negate, ma grazie all’intervento del ministro Mihai Antonescu (omonimo del dittatore Ion Antonescu), il quale sembra abbia cercato di salvare in questo modo da prevedibili guai alcuni dei giovani intellettuali più promettenti dell’epoca, che gli sembravano particolarmente a rischio nel nuovo regime. Tesi rafforzata da un appunto di diario dello stesso Ionesco quando scrive, a proposito di quell’esperienza: “Je suis comme un évadé qui s’enfuit dans l’uniforme du gardien” (Sono come uno che riesce a evadere nella divisa del guardiano). Fatto sta che, pur sostenendo di detestare Vichy e i suoi colleghi, manterrà il suo posto fino al 1945 e otterrà anche diverse promozioni, occupandosi, oltre che della traduzione e promozione di scrittori rumeni in Francia, anche di rafforzare le relazioni economiche e commerciali fra i due paesi.
Anche se già in Romania aveva abbozzato qualcosa, la vera carriera teatrale di Ionesco si sviluppa in Francia (e in francese) a partire dagli anni Cinquanta. Esordisce proprio nel 1950 con una commedia, qualificata dall’autore stesso di anti-pièce, che mette alla berlina la vacuità degli scambi linguistici e sociali, ridotti alla vieta riproposizione di vacue formule, e che otterrà a Parigi un buon successo di pubblico e soprattutto di critica: La Cantatrice chauve (La cantatrice calva), rielaborazione di un lavoro scritto in rumeno sette anni prima, Englezeste fara profesor (L’inglese senza professore). L’anno successivo è la volta di La leçon (La lezione), un confronto grottesco fra un professore e una sua allieva in cui il linguaggio diventa ferale e assassino, e Les chaises (Le sedie), dagli accenti più metafisici, in cui beckettianamente mette in scena due personaggi anziani in un mondo da cui la vita sembra essersi ritirata. Ricordiamo ancora, fra le tante opere teatrali di notevole impatto in quegli anni, Jacques ou la soumission (Jacques ovvero la sottomissione), Amédée ou Comment s’en débarrasser (Amedeo o come sbarazzarsene) e Le Nouveau locataire (Il nuovo inquilino), che gli valgono fra l’altro l’elezione a membro del Collegio di Patafisica; né va dimenticato il resto della sua produzione, ovvero l’unico romanzo, Le Solitaire (Il solitario), i racconti, i diari e i saggi.
Alla fine degli anni Cinquanta va datato il famoso dramma Rhinocéros (Il rinoceronte), con cui Ionesco denuncia ogni sorta di totalitarismo e in particolare la “rinocerontizzazione” della Romania fascista e sul quale torneremo più avanti, per l’importanza che ha avuto anche nei suoi rapporti con gli amici di un tempo. Del 1962 è Le Roi se meurt (Il re muore), che presenta anch’esso degli spunti “beckettiani”, ma si riallaccia altresì alla grande tradizione tragica classica, dall’Edipo Re in poi. Nel 1970 il patafisico Ionesco sarà poi eletto anche all’Académie française in sostituzione di un vecchio amico, Jean Paulhan, che molto l’aveva sostenuto nell’immediato dopoguerra.
Dopo la rielaborazione, nel 1972, del Macbeth shakespeariano (Macbett), e L’Homme aux valises (L’uomo con le valigie), del 1975, ritratto di un infaticabile viaggiatore che assiste con stupore all’agitazione e al caos del mondo che lo circonda, l’ultimo dramma sarà, nel 1980, Voyage chez les morts (Viaggio tra i morti), vero e proprio atto testamentario che termina significativamente con una definitiva e telegrafica battuta: “Non so”. Un “non so” che oggi ci piacerebbe poter applicare anche all’accresciuto e assai controverso impegno politico degli ultimi anni. Ionesco parteciperà infatti a numerose iniziative volte a denunciare a livello europeo i crimini del comunismo in Romania (cosa di per sé lodevole), prendendo tuttavia nel 1978 – con una certa ingenuità politica – anche le difese di un gruppo giovanile francese d’estrema destra, il Groupe union défense, i cui esponenti erano stati accusati di svariati atti di violenza, e attirandosi quindi forti critiche. A quel punto sarà rimesso in discussione tutto il suo passato: la presunta apoliticità della giovinezza, l’amicizia con Eliade e Cioran – che da parte loro avevano ricominciato una nuova vita in Occidente cancellando accuratamente ogni traccia del loro coinvolgimento con il movimento parafascista dei Legionari negli anni Trenta –, l’episodio di Vichy e le funzioni da lui svolte nell’ambasciata di un paese alleato con la Germania nazista (e che quindi partecipava indirettamente all’occupazione della Francia), e così via.
In una lettera del 19 settembre 1945, inviata al suo ex-professore di estetica dell’Università, Tudor Vianu, Ionesco aveva scritto, a proposito di se stesso e degli amici che avevano partecipato all’avventura della rivista Criterion: “La generazione Criterion, la tronfia, infatuata «giovane generazione» di quindici o dieci anni fa, si è decomposta, è marcita. Nessuno di noi ha ancora quarant’anni e siamo finiti. (…) Per quel che mi riguarda non ho da rimproverarmi di essere stato fascista. Ma questa cosa si può rimproverare a quasi tutti gli altri. (…) Cioran è qui, esule. Ammette di aver sbagliato, in gioventù, ho difficoltà a perdonarlo. È arrivato o arriverà in questi giorni Mircea Eliade: per lui tutto è perduto visto che «ha vinto il comunismo». Lui è un grande colpevole. (…) Alcuni sono morti per la loro cretineria, gli altri, per fortuna, ammutoliti – tutta la generazione di Criterion è distrutta. La fatalità insegue tutti, sia quelli che si sono lasciati catturare dalla stupidità e dalla follia, sia quelli rimasti lucidi.”
Fra le poche vittime della fatalità rimaste lucide Ionesco annovera evidentemente se stesso; il problema, però, per parafrasare il titolo di una commedia del Nostro, è “comment s’en débarrasser”, come sbarazzarsi di tutto quell’esecrato periodo storico, che tuttavia nella fattispecie coincide con gli entusiasmi della gioventù. C’è un segreto, personale e collettivo, che comporta dei crimini, altrettanto personali e collettivi, i quali a loro volta comportano delle colpe: a tutto questo Ionesco sceglie di rispondere con la categoria del perdono, almeno nei confronti di coloro che non ha mai smesso di considerare amici e sodali, in omaggio a una concezione dell’amicizia che oggi può sembrarci esagerata, ma che all’epoca erano in molti a condividere. Come dimostra mutatis mutandis anche la parabola di Mihail Sebastian, il quale, benché ebreo e come tale perseguitato, non riuscì mai a staccarsi del tutto da letterati amici come Eliade, Cioran e Petrescu, anche quando fu costretto ad ammetterne i deliri antisemiti.
Ionesco sceglierà insomma, come lo struzzo, di mettere la testa sotto la sabbia: sta di fatto che nel dopoguerra non solo “perdona” Eliade e Cioran per i loro trascorsi, ma, come ormai appurato da molti studiosi, assiste in disparte e muto alla congiura del silenzio che questi promuovono, partecipando o almeno non sottraendosi – forse appunto solo per un malinteso sentimento di amicizia, ma finendo per rimanerne complice – alla precisa strategia di cancellare ogni traccia del loro passato.
Da parte sua, avendo sicuramente meno scheletri nell’armadio, Ionesco tenterà sempre di accreditarsi come uomo di cultura equidistante da qualunque tendenza politica e, soprattutto, visceralmente contrario a ogni forma di totalitarismo. Posizione che gli veniva del resto da lontano, dal paradosso, vissuto negli anni Trenta, appunto, di non poter parteggiare né per la Germania nazista e antisemita né per l’Unione Sovietica che aveva invaso parte della Romania. Un paradosso aggravato dal fatto che, in fondo al suo animo, non avvertiva neanche troppo la Romania come sua patria, in quanto avrebbe di gran lunga preferito vivere in Francia, dov’era cresciuto e si sentiva davvero a casa.
Nel secondo dopoguerra questa equidistanza resta tale, ma la situazione politica in Romania fa sì che in Ionesco finisca per risaltare maggiormente un vibrante anticomunismo, per il quale nella Romania stalinizzata sarà peraltro condannato in contumacia ben due volte, a rispettivamente cinque e sei anni di reclusione, dai tribunali del popolo: non è naturalmente escluso che ciò abbia finito anche per riavvicinarlo a Eliade e Cioran e a tutta la sua generazione, facendogli reinterpretare le ombre del passato in un senso più mitigato e indulgente.
L’opera in cui il rifiuto di qualunque totalitarismo appare in maniera più evidente e programmatica è Rhinocéros, a proposito della quale dirà in un’intervista: “Il rinoceronte è l’uomo dalle idee già pronte. Nella mia opera ho semplicemente voluto raccontare una contaminazione ideologica. L’ho vissuta per la prima volta in Romania, quando l’intellighentia era in quel momento di estrema destra, e adesso è di estrema sinistra […] I professori universitari, gli studenti, gli intellettuali diventavano, uno dopo l’altro, nazisti, legionari.” Così come molti nel dopoguerra sarebbero diventati prima stalinisti e poi adepti del dittatore Ceauşescu, in un paese che scontava purtroppo l’assenza di una qualunque tradizione democratica.
Nella pièce il peraltro debole Bérenger è l’unico a resistere al contagio, costituisce anzi l’estremo baluardo rimasto al mondo per combattere l’isteria collettiva, la violenza cieca, il fanatismo politico, il conformismo, il manicheismo e l’incurabile stupidità e indifferenza che sembrano voler avvolgere tutto. L’epidemia di “rinocerontismo”, che scuote l’umanità intera, rappresenta il primato dell’ideologia sull’individuo e passa anche attraverso la negazione del linguaggio, ridotto a propaganda, slogan e parole d’ordine. Con il personaggio di Bérenger si sono misurati, nelle varie lingue, attori teatrali di spicco come Jean-Louis Barrault, Laurence Olivier (in un famoso allestimento con la regia di Orson Welles) e da noi Glauco Mauri, quasi a sottolineare di quanti valori questo personaggio apparentemente anodino sia portatore e quanto attiri i grandi interpreti.
Quella di Ionesco è una drammaturgia parossistica e paradossale, i cui effetti, come sosteneva egli stesso, devono essere esasperati per illuminare quelle zone della realtà delle quali, per quieto vivere, omettiamo di prendere coscienza. Lontane tanto dal teatro volto al puro divertimento quanto da quello impegnato, tanto dal teatro della parola a tendenza psicanalitica quanto da quello realista, le opere di Ionesco puntano decisamente all’inconscio e alla rielaborazione di archetipi, ma in chiave grottesca – il che ne rappresenta il portato, genialmente mutuato dal teatro surrealista, ma anche il limite. A volte il gioco è talmente insistito da farsi pedante e risibile, in altre occasioni le commedie appaiono un po’ troppo costruite a tavolino, e in altre ancora si vorrebbe che la denuncia non venisse smorzata dallo stesso autore in omaggio a una presunta e artificiale astinenza (o equidistanza) dalle umane passioni. Resta però un gigante della scena, i cui stretti legami con la grande tradizione drammatica rumena – un nome su tutti, quello di Ion Luca Caragiale – devono essere ancora esplorati compiutamente.