Sabino Caronia
Nell’anno del centenario della morte

La promessa di Kafka

«Una storia è sempre un progetto, una “costruzione”, va oltre la concretezza di quanto accade». E lo scrittore boemo, con le sue storie, ci ha affidato un’uscita di sicurezza dall’invadenza del reale regalandoci un futuro...

Italo Alighiero Chiusano, il grande germanista, che già in Storia del teatro tedesco, a proposito di Il custode della cripta, aveva parlato del «metafisico, mistico conforto che irradiano le sue visioni, anche le più desolate», in Altre lune, nel suo saggio sul volume fotografico di Klaus Wagenbach, intitolato non a caso Guardare Kafka, scrive: «Vedete tutta questa roba, tutte queste persone? In verità vi dico, nulla di tutto questo, nessuno di tutti costoro andrà perduto. In un serbatoio metafisico misterioso, tutto ciò vive ancora, vivrà in eterno». Guardare Kafka è come attingere a un serbatoio metafisico. Come per la Genesi così anche per Kafka Dio è superiore all’ordine del creato. Egli può far nascere un figlio da Sara, come poi da Elisabetta, poiché nulla è impossibile a lui. Chi altro, se non lui, può dire a un prigioniero trasferito da una cella a un’altra: «Questo viene con me»?

C’è una foto in cui Kafka, bambino di circa sei anni, appare stretto in un vestito striminzito, un po’ umiliante e strapieno di merletti, immerso in un paesaggio di serra. Sullo sfondo spuntano foglie di palma. E, come per rendere ancora più afosi e soffocanti quei tropici imbottiti, stringe nella mano sinistra un gigantesco cappello a falde larghe all’uso degli spagnoli. Occhi infinitamente tristi ispezionano il paesaggio che è stato loro destinato, il grande orecchio è teso in ascolto. L’ardente desiderio di diventare un indiano, il richiamo dell’oltre che ritorna nelle pagine conclusive del romanzo americano, si è forse nutrito di questa infinita tristezza: «Oh, essere un indiano, sempre pronto, e sul cavallo in corsa, fendere l’aria, vibrare sempre di nuovo brevemente sul terreno che vibra, finché si lasciano gli speroni, poiché non ci sono speroni, finché si gettano le briglie, poiché non ci sono briglie, e non si vede più che la campagna davanti a sé come una landa pelata, già senza il collo e senza la testa del cavallo».

Già in una lettera a Oscar Pollak il 24 agosto 1902, informandolo che era stato lì lo zio di Madrid, Kafka si chiedeva «se non potesse condurmi da qualche parte dove finalmente potessi mettermi all’opera». Pochi mesi dopo, il 20 dicembre, di ritorno da Monaco, dove aveva seguito il suo compagno Paul Kish, allo stesso Pollak scriveva: «Praga non molla, non molla noi due, questa mammina ha gli artigli». Quindi, nella lettera a Max Brod datata metà agosto 1907, dopo aver descritto la sua consueta routine quotidiana osservando che, per contro, c’era «il negozio e la consolazione, la sera», con il che intendeva la consolazione della creazione letteraria, aggiungeva «Oh, se si diventasse felici soltanto con la consolazione e non ci volesse anche un po’ di felicità per essere felici!» e concludeva: «Ora […] imparerò, accanto all’inglese e al francese, anche lo spagnolo […] Mio zio dovrebbe procurarci un posto in Spagna, o andremmo nell’America del sud o nelle Azzorre, a Madera».

Dal momento in cui decide di recarsi con la sorella Elli sul Baltico, a Müritz, qualcosa cambia nella vita di Kafka. Dunque Müritz, la gioia del mare, quel mare che, nei dieci anni da quando non lo vedeva, si era fatto «più bello, più vario, più vivo, più giovane», le voci dei bambini, quelle voci che a Planà lo infastidivano al punto da farlo sentire come una bestia disperata nella sua tana con nemici dappertutto e allora invece lo rallegravano al punto da fargli scrivere a Hugo Bergmann: «Per stabilire se posso spostarmi mi sono deciso dopo molti anni di letto e mal di capo a fare un viaggetto fino al Baltico. In ogni caso ho avuto fortuna. A cinquanta passi dal mio balcone c’è una colonia estiva della Casa Popolare Ebraica di Berlino. Tra gli alberi vedo i bambini che giocano. Bambini sani, allegri, pieni di vita. Ebrei orientali salvati dal pericolo berlinese ad opera di ebrei occidentali. Per buona parte della giornata e della notte la casa, il bosco e la spiaggia risuonano di canti. Quando sono tra loro, non sono felice, ma comunque sulla soglia della felicità». Dunque il mare e i bambini, quei bambini ebrei, come se fosse a Tel Aviv, il piacere di festeggiare con loro, per la prima volta, la sera del venerdì, e l’incontro con Dora. Proprio quella sera, in cucina, osservando una ragazza poco più che ventenne, capelli crespi, occhi grigio-azzurri, che stava sventrando dei pesci, aveva esclamato contrariato: «Che lavoro sanguinoso per mani così delicate!». Così era iniziata la sua conoscenza di quella che, per il poco tempo che ancora gli rimaneva da vivere, sarebbe stata la sua compagna. Quello certo era stato un incontro voluto dal destino. Dopo quell’incontro avrebbe finalmente trovato il coraggio di andare via da Praga e raggiungere Dora a Berlino.

Del resto solo qualche anno prima, il 4 maggio 1915, aveva scritto: «Oh, possedere qualcuno che abbia questa comprensione, non so, una donna, vorrebbe dire essere sostenuto da ogni parte, avere Dio». Dunque non era stato un caso. Non molto tempo dopo aver lasciato Müritz, trascorse tre settimane dalla sorella Ottla a Schelesen e poi, tornato a Praga il 22 di settembre, il 24 aveva preso il treno ed era partito. Così, dopo l’incontro con Dora, aveva trovato il coraggio di andare via e raggiungere lei a Berlino. Aveva scritto: «Praga non ci lascerà … la piccola madre ha gli artigli». Sembrava proprio non dovesse andarsene mai e invece quel fatidico 24 settembre 1923 aveva preso il treno ed era finalmente fuggito. Mi sembra quasi di vederlo quelle sere che, a Müritz, per i bambini della colonia, ebrei orientali, sani, allegri, con gli occhi azzurri, si divertiva a fare il gioco delle ombre cinesi e penso alle ombre cinesi che mia madre faceva quando ero bambino, agli alberi genealogici di mio padre, al paese d’ombre dove riposano i morti in attesa di essere richiamati alla memoria. Muovendo le mani e le dita con straordinaria abilità componeva sulle pareti i suoi giochi d’ombre: le dita, le mani, si univano e si dividevano ed ecco che l’ombra di un coniglio, di un gatto, di un cane, di un orso, di un genio delle Mille e una notte si muoveva sulla parete illuminata. Come nelle Mille e una notte il narrare infinito incantava il tempo ed esorcizzava la morte.

Nessuno meglio di lui, come Sheherazade, conosceva l’arte di procrastinare gli eventi. Alla metà di dicembre, dalla sua tranquilla residenza ai margini della città, scriveva: «Steglitz è un sobborgo semicampagnolo, simile a una città-giardino, io abito in una villetta con orto e veranda chiusa da vetrate, in mezz’ora di strada fra gli orti si arriva al Grünewald, il grande orto botanico è distante 10 minuti, altri parchi sono vicini e dalla mia strada tutte le vie passano attraverso i giardini». Proprio quell’inverno, durante una delle quotidiane passeggiate all’orto botanico, gli era capitato di incontrare una bambina in lacrime che aveva perso la bambola. Lui le aveva parlato e, commosso dalla sua dedizione e comprensione, aveva continuato per tre settimane a incontrarla e a raccontare, sostituendo la bambola perduta con una realtà diversa, falsa, forse, ma veritiera secondo le leggi della narrativa. Raccontava che la bambola, stanca della solita vita, era andata in viaggio… «E tu come lo sai?» diceva la bambina. «Perché mi ha scritto una lettera». «Ce l’hai qui?» incalzava. «No, l’ho lasciata a casa, ma domani te la porto». La bambola scriveva ogni giorno alla bambina e la teneva al corrente, diventava grande, andava a scuola, conosceva altre persone, decideva di sposarsi, descriveva il giovanotto di cui era innamorata, la festa di fidanzamento, i preparativi per le nozze in campagna, la casa dove sarebbero andati ad abitare… poi finalmente diceva addio alla sua amica. Ma a questo punto la bambina non sentiva più la mancanza della bambola, aveva altro, la storia, e quando una persona è abbastanza fortunata da vivere all’interno di una storia, da vivere in un mondo immaginario, i dolori di questo mondo svaniscono. Perché una storia è sempre un progetto, una “costruzione”, ci pone in un contesto che va oltre la concretezza di quanto accade, perché darla è dare un possibile senso, perché il contesto in cui la storia ci pone va oltre e, fino a quando la storia continua, la realtà non esiste.

Muore il 3 giugno 1924 a mezzogiorno. Pochi anni dopo, il nazismo, le persecuzioni degli ebrei, i lager… Max Brod e altri più fortunati riparano all’estero. Non così Milena. Non così i bambini sani, allegri, con gli occhi azzurri, della colonia della casa popolare ebraica di Berlino o la bambina della bambola nel parco di Steglitz. Non così le sue sorelle. Tutte e tre, Ottla, Elli, Valli finiscono in un campo di sterminio. Ottla ad Auschwitz, dove volontariamente si era offerta di accompagnare 1267 bambini, Elli e Valli a Chelmnad Nerem. E non ne escono più. Per fortuna i genitori erano già morti: il padre nel 1931, la madre nel 1934. Contro l’invadenza del reale quella di Kafka è una promessa, la promessa di futuro che egli ha affidato a tutti noi, la promessa di futuro per cui egli ci appartiene, è di ognuno di noi, è di tutti.

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