I deliri del bibliofilo
Il mestiere di poeta
Così scriveva Pavese a proposito della sua prima raccolta poetica che fu il suo libro esordio (1936), in calce alla ristampa del 1943: «Qualunque sia per essere il mio avvenire di scrittore, considero conclusa con questa prosa la ricerca di “Lavorare stanca”»
La raccolta poetica Lavorare stanca rappresenta il libro d’esordio di Cesare Pavese. Venne pubblicata dalle Edizioni di Solaria nel 1936 come quarantesimo e penultimo titolo della casa editrice fiorentina in 150 copie su carta normale, 30 su carta Doppio Guinea, oltre a una tiratura non dichiarata destinata alla vendita. Il libro venne stampato presso la Tipografia Parenti di Firenze in una brossura a due colori con il consueto fregio editoriale di Bruno Bramanti. Misura cm 22,4 x 16,2 e si avvale di 108 pagine. Comprende 45 poesie, risalenti al decennio 1930-1940, anche se il disegno originario ne prevedeva 41. Quattro testi furono censurati e l’autore li sostituì con otto nuove liriche, come risulta da questa lettera inviata all’editore nel settembre 1935: «Caro Carocci, ecco, se Dio vuole, le bozze definitive di Lavorare stanca. Ho tenuto conto del consiglio del Ministero Stampa e cancello, come vedi, Il Dio caprone (piangendo), Pensieri di Dina, Balletto e Paternità. Così il volume potrà ormai servire da libro di preghiere anche per una vergine».
Quando il volume uscì Pavese, direttore della rivista «La Cultura» di Einaudi, si trovava confinato a Brancaleone Calabro. Il 15 maggio 1935 era stato arrestato e deportato a Regina Coeli con l’accusa di antifascismo. Fu Leo Ferrero, nipote di Cesare Lombroso, a fare presumibilmente da intermediario con Alberto Carocci, che aveva dato vita alla rivista letteraria «Solaria», per la pubblicazione con il marchio editoriale fiorentino. Il 9 luglio 1932 Ferrero si rivolge così a Carocci: «ti mando queste “poesie” che mi sono mandate da quel Leone Ginzburg di Torino che scrisse sui russi nel Baretti. Sono, dice, di un noto critico piemontese che non dice il suo nome. Rispondigli quello che vuoi: per me è indifferente». Una decina di giorni più tardi lo stesso Ginzburg scrive a Pavese: «Cesarito bello, ho veduto Carocci […]. Gli ho consegnato il ms., sul quale mi riferirà domenica. Comunque, mi ha dichiarato che “Solaria” è già disposta fin da ora a pubblicare il volume». Nonostante il parere positivo espresso, la stampa verrà rimandata da un mese all’altro per i più svariati motivi, non ultimo quello riguardante gli impedimenti creati dalla censura fascista che inizialmente si concentra intorno a un nucleo di sette poesie.
In data 7 agosto 1935 Pavese sollecita la pubblicazione: «Caro Carocci, già saprai delle mie disgrazie. Sono a Brancaleone in Calabria per tre anni. Mia sorella mi ha scritto che il mio libro aveva incontrato l’approvazione dell’Ufficio Stampa, ma poi che volevi rimandarne la pubblicazione in ottobre. Credo che ormai le ragioni che ti facevano dilazionare non abbiano più peso; ti sarei grato se volessi ritornare sull’argomento e scrivermene qualcosa. Penso che il volume nella sua forma definitiva, con l’esclusione cioè di Una generazione, potrebbe ora uscire, semplicemente passandone le bozze al Ministero dell’Interno per l’autorizzazione. Non posso quindi che raccomandarmi alla tua buona volontà».
Molti dei titoli usciti presso le Edizioni di Solaria nel decennio 1926-1936 rappresentano opere prime: Bonsanti, Gadda, Guarnieri, Loria, Morovich, Nannetti, Quarantotti Gambini, Quasimodo, Vittorini (ma figurano anche Debenedetti, Giotti, Giuseppe Raimondi, Saba ecc.). Osserva Lucio Gambetti in Libri memorabili. Una storia della microeditoria italiana del Novecento, edito da Biblion nel 2021: «La scarsa notorietà degli autori proposti è probabilmente all’origine dell’incerto successo commerciale: solo due tra i quarantuno volumi pubblicati arrivano alla seconda edizione e, ancora nel 1954, molti anni dopo la chiusura dell’attività, gran parte dei titoli saranno ancora disponibili nel catalogo di Vallecchi, che aveva acquisito le rimanenze».
Il libro ebbe un’accoglienza piuttosto fredda, acuendo l’insoddisfazione dell’autore da cui deriva forse la scelta di orientarsi verso la prosa. In una lettera, indirizzata a Giambattista Vicari, preciserà: «Ho pubblicato nel 1936 LAVORARE STANCA volume di poesie di cui nessuno si è accorto. Sto per ripubblicarlo, aumentato e migliorato, in questi mesi». Nel 1941 compare Paesi tuoi per Einaudi, editore che pubblicherà tutti i suoi successivi titoli, ad eccezione del racconto La spiaggia, apparso l’anno successivo nella Collezione di Lettere d’Oggi. La princeps di Lavorare stanca, piuttosto difficile da reperire sul mercato antiquario, ha quotazioni che si aggirano intorno ai 2500 euro.
Nel 1943 la raccolta sarà ristampata da Einaudi con l’aggiunta di 31 nuove poesie, composte tra il 1936 e il 1940, mentre sei confluite nella prima edizione verranno accantonate. Il volume (nella foto sopra), dalle stime molto più abbordabili rispetto al precedente, presenta in copertina un’immagine di Francesco Menzio e contiene 184 pagine. In calce alla raccolta l’autore ha inserito due saggi di poetica preceduti da questa avvertenza: «Unisco, in appendice all’edizione definitiva di questo mio libro (che integra e sostituisce la prima edizione licenziata nell’ottobre 1935), due studi con cui cercai successivamente di chiarirmene il significato e gli sbocchi. Il primo, Il mestiere di poeta, lo scrissi nel novembre 1934, e ha per me un interesse ormai soltanto documentario. Quasi tutte le sue affermazioni e i suoi orgogli appaiono rientrati e superati nel secondo, A proposito di certe poesie non ancora scritte, composto nel febbraio 1940. Qualunque sia per essere il mio avvenire di scrittore, considero conclusa con questa prosa la ricerca di Lavorare stanca». Il 24 gennaio 1936 Pavese scrive dal confino: «Caro Carocci, ricevo cartolina 8 e – prodigio di celerità – il pacco di Lavorare stanca. Lacrime, tripudio, auspici, bicchierata: tutto da solo». Evidenzia tre refusi («Anche troppo pochi») alle pagine 90, 95 e 104.
In data 15 ottobre 1935 troviamo, nel Mestiere di vivere, questa significativa affermazione: «In Lavorare stanca entrava tutta la mia esperienza fin dal giorno in cui apersi gli occhi, ed era tanta la gioia di scavare al sole il mio primo oro, che non sentivo monotonia». Appena due giorni dopo l’autore ribadisce di voler «trovare il segreto di fondere la fantastica e sentenziosa vena del Lavorare stanca con quella, pazzerellona e realisticamente intonata a un pubblico, della pornoteca. Ed è indubitato che ci vorrà la prosa».
Pavese tornerà alla poesia solo occasionalmente. L’esile raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi apparve postuma nel 1951 da Einaudi, con una grafica spoglia e disadorna che sembra idealmente adattarsi agli argomenti esistenziali trattati, con esiti a dir poco rimarchevoli: «Sarà come smettere un vizio, / come vedere nello specchio / riemergere un viso morto, / come ascoltare un labbro chiuso. / Scenderemo nel gorgo muti».