A proposito di “Da luoghi profani”
Poesia di movimento
La nuova raccolta poetica di Elisabetta Destasio Vettori spinge il lettore come «verso qualcosa» per fargli scoprire, poi, che quest'atto implica il «provenire da un dove»
Nella Collana Icone, dedicata alla poesia, e curata per gli editori Les Flâneurs da Alessandro Cannavale, è uscito lo scorso ottobre Da luoghi profani (pagine 116, 12 Euro), di Elisabetta Destasio Vettori, in cui è raccolto e quasi drammatizzato un intero percorso, sensuale e corporale, dunque poietico e poematico, che edifica in filigrana un’intera identità e un’intera figura: ci arriveremo.
Per adesso seguiamo passo passo la sensibile e sensata costruzione che l’autrice presenta con una poesia di grande impatto eppure elegante, delicata a suo modo, cordiale in senso stretto. Ce lo suggerisce anche l’immagine di copertina, ottimo biglietto di presentazione, facendoci entrare in un tempio che, come direbbe Bono Vox degli U2, istituisce una legge superiore: è la legge dell’amore, sprigionato in ogni direzione come bussola relazionale e di mobilità.
Ma noi tutti sappiamo che non si può parlare di letteratura col naso per aria, roteando la testa e il cervello come se l’arengo fosse un iperuranio astratto – noi sappiamo, e l’autrice conta su questa comune consapevolezza, su questo corrispondente intendimento, che tutto passa attraverso segni e segnali disseminati sulla pagina, come una cartografia che riesca ad indicarci con precisione “il luogo dell’appuntamento”, là dove il testo permette l’incontro tra chi poeta e chi legge/vive, in un rilancio stimolante che fa del codice testuale il vero motore.
Consiglio vivamente di leggere la prefazione/studio/saggio di Roberto Deidier, che illustra questo volumetto compatto ed esplosivo – io qui mi limito ad annotare che quasi subito si segnalano, tra questi versi, due segni, e subito, dopo nemmeno tre o quattro sequenze, viene spontaneo appuntarsi da una parte il sintagma (primo segno-segnale), “Occhio al corsivo!”–
Watch the Italics!: eccolo qua, abbinato, come si vede dalla mia rudimentale imitazione, ai due punti malandrini (il secondo segno-segnale) di cui qui di seguito mostro l’impiego,
Oggi il cane del guardiamo
Mi ha scodinzolato
deve aver sentito
l’odore del sangue
lo sguardo fisso
al brandello di vita
e se vive Natura
potrei innestarmi
in radice di genziana
per salvarmi
:ho dimorato anche io,
sola,
in estranee cose.
Specie il crescere dei corsivi in una scia lungo l’intero arco di sviluppo della versificazione fonda un termine, in apparenza “ad quem”, per rivelarsi poi come termine “a quo”: non verso il quale, ma dal quale, e spiego perché un simile capovolgimento assuma qui senso – lo è in apparenza poiché leggiamo dalla prima all’ultima pagina della raccolta nel nostro verso di lettura, come tendendo verso qualcosa, che però, scopriamo, implica il provenire da un dove.
La chiave è considerare questo moto di senso, questo movimento periodico, come un reale spostamento oscillatorio. Tra due termini. Tra due entità. Tra due corpi. Tra due spazi. Nel tempo. Nell’arco, di certo, disegnato o, dovremmo dire circoscritto e incorniciato, da questa poesia. Eccoci: questo istituisce un’identità, o meglio un’identificazione/immedesimazione – cioè costruisce una nuova prosopopea o personificazione: la coincidenza micro/macro tra la poeta e la città di Roma, in un immaginabile sistema grafico e fisico di corpi concentrici.
Leggere questa poesia è come leggere una facciata monumentale in cui linee e proporzioni danno il segno del fasto essenziale nella costruzione. La sua struttura architettonica traspare in un sistema di segni e segnali, ripeto, che in filigrana istituiscono una corrispondenza formale come metafora di una identità materica e sensuale.
La Roma monumentale e storica, sgretolata, è sparsa in macerie che mani pietose e franche di cerimonie cercano di racimolare e rimettere insieme, in un quadro vecchio e rinnovato che torni ad avere senso: il presente che tutto sbriciola; il passato in cui tutto ancora era in piedi e già in bilico; il domani (c’è ancora?) in cui avremo, forte e sopito nell’amarezza che ogni giorno ci alimenta, il ricordo vivo e il rimpianto di chi e di cosa è stato – che per noi è, sempre, ed è alimento d’affetto, ma giace sfatto come i sassolini di Pollicino, i quali, per la nostra storia interiore e per il nostro mondo radicale, brillano con bagliori ammiccanti che provano a significare ancora, rischiando però, così dispersi, di non avere significato mai più.
Qui si ossidano gli ottoni
le ossa si fanno
legno poroso
si sfalda la falange
– ma per lei non sento più
dolore
se non quello del muretto
scrostato e dei tronchi
senza corteccia della sugheraia,
visibile da via della Pisana
sono anni
che solco i suoi segmenti
e mai, mai come ora
le frammentazioni sull’asfalto
un misto d’acqua e di abbandoni
sono state simili a ogni passante
mai, mai come ora
sono state somiglianti
a tutte le mancanze
tradotte in cipresso,
lingua di fiume
– corpo alla deriva
Una poesia, questa di Elisabetta Destasio Vettori, scultorea, essenziale, sensoriale, sensuale, che, per descrittività grafica grida un’asciuttezza d’assunto, e registra una stagione arida con espressività e, a monte, percezione né sorde né cieche.
[…] la città invece urla / nell’angolo scuro della notte / il margine sempre più spesso / dell’indifferenza // e ancora una volta / qui non è estate / – qui è l’oblio.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.