Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Donne allo specchio

Il nuovo film di Todd Haynes racconta l'incontro tra una donna "scandalosa" e l'attrice che deve interpretarla al cinema. Ma è una pellicola sempre sopra le righe e disturbata da una colonna sonora invasiva

C’è un film, tra i molti usciti in questi giorni, che sta ottenendo critiche lusinghiere, si intitola May December (ovvero “Maggio Dicembre”, titolo che pare riferirsi alle stagioni della vita) ed è la nuova pellicola firmata dal regista e sceneggiatore di Los Angeles Todd Haynes. A me questo film, lo dico subito senza giri di parole, non è piaciuto fin dalla prima scena, con la fotografia fuori fuoco (immagino intenzionale) e la musica inutilmente drammatica, come se di lì a poco dovesse irrompere un killer e fare una strage. Invece in May December non succede niente perché è già successo tutto prima.

Non rivelo nulla della trama visto che è possibile leggerla ovunque e visto che non è un thriller, anche se l’insopportabile colonna sonora lo farebbe supporre.

Elisabeth, un’attrice di 36 anni impersonata da Natalie Portnam, arriva a Savannah in Georgia, profondo sud degli Stati Uniti, per raccogliere suggestioni e informazioni sulla donna che si prepara a impersonare in un film. La donna in questione, Gracie (Julienne Moore) è finita sulle prime pagine di tutti i giornali 24 anni prima a causa dell’amore proibito con un tredicenne di origini coreane per il quale ha lasciato marito e figlio. Ovviamente a Savannah questa storia la conoscono tutti e l’imbarazzo che circonda Gracie è palpabile anche dopo anni: è stata arrestata, in carcere è nato il figlio della scandalosa relazione, dopo la scarcerazione la donna e il ragazzino si sono sposati, sono nate anche due gemelle, tutto questo avviene prima del film che inizia con l’arrivo dell’attrice decisa a scoprire chi è davvero Gracie.

C’è chi ha evocato per questa pellicola Eva contro Eva, il film di Joseph Mankiewicz del 1950 che tuttora detiene il record imbattuto di candidature agli Oscar (14 nomination). Siamo su un altro pianeta. Moore e Portnam non sono Bette Davis e Anne Baxter, ma soprattutto il melodrammatico Haynes non è l’eretico (secondo Hollywood) Mankiewicz che faceva cinema come si fa teatro.

Tutto il film sta nel gioco di specchi tra Elisabeth e Gracie, l’una recita l’altra, l’una diventa l’altra, Gracie trucca Elisabeth col suo make-up, Elisabeth prova le stesse vampate di desiderio di Gracie, ma entrambe fingono in questa recita, entrambe si nascondono dietro i sorrisi di circostanza e gli occhiali da sole, e certo Moore e Portnam fanno del loro meglio per dare credibilità a questo confronto.

Ma qualcosa, anzi molto, mi ha disturbata lasciandomi totalmente estranea alla storia: innanzitutto il pessimo e ripetitivo commento musicale di Marcelo Zarvos (questo nome me lo segno così il suo prossimo film lo evito), certo la fotografia che mette fuori fuoco gran parte della pellicola (e non posso credere fosse un problema dell’addetto alla proiezione, ho visto il film in versione originale alla Cineteca di Bologna). Mi ha disturbata anche l’interpretazione sopra le righe della Moore, interpretazione chiaramente dettata dal regista, dove Gracie non rivela i chiaroscuri della sua fragilità, ma diventa una donna insopportabile tra Giocasta e Medea, che si proclama vittima della seduzione di un ragazzino quando in realtà è una plagiatrice seriale. Insomma Gracie è l’incarnazione perfetta della “sionista castrante” evocata con ben altra classe e intelligenza da Woody Allen. Sarà per questo che dopo May December ho sentito l’urgente bisogno di rivedere Manhattan per l’ennesima volta.

Post scriptum: May December, presentato l’anno scorso a Cannes (dove non ha vinto niente) e candidato all’Oscar per la migliore sceneggiatura originale (andato giustamente ad Anatomia di una caduta), ha avuto quattro nomination ai Golden Globe senza vincerne nessuno.

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