Al Teatro India di Roma
A lezione da Goldoni
Piero Maccarinelli, con i (bravi) giovani attori dell'Accademia Silvio D'Amico ha messo in scena "La casa nova" di Carlo Goldoni: uno spettacolo perfetto e "contemporaneo" che dimostra come si potrebbe dare un futuro migliore al nostro teatro
Le smanie di Cecilia e Angiolino per La casa nova, come si intitola la commedia di Carlo Goldoni del 1760 , sono quelle di chi vuole apparire più di quel che è e può, sono quelle della nuova piccola borghesia di bottegai arricchiti che si vergognano del loro passato e cercano i farsi accettare nella bella società, sono le stesse ambizioni sbagliate e vanità che segneranno Le smanie per la villeggiatura, scritta solo un anno dopo, prima parte di una trilogia più ariosa e di finezze psicologiche, ma meno incisiva e secca nella denuncia e pronta a un domestico lieto fine con animi pentiti e cuori inteneriti.
Un testo raro sulle scene (si ricorda un’edizione Squarzina del 1973) e che, nell’allestimento di Piero Maccarinelli con i giovani dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, dimostra come, se si tiene al futuro del nostro teatro, sia una necessità lavorare con i giovani, visto i risultati di alto livello dimostrati dall’impegno di regia di Maccarinelli che ha lavorato ancora una volta con gli allievi e i neodiplomati dell’Accademia, al Teatro India (sino a domenica 24 marzo) in una produzione del Teatro di Roma, che, in quanto Teatro Nazionale, dovrebbe avere queste iniziative tra i suoi doveri istituzionali.
Un’operazione supportata anche dal piano adattamento di Piero Malaguti, autore veneto, senza alterare struttura e senso de La casa nova nel tradurla dal veneziano stretto in cui era nata, nello sfoltirla ma lasciando la meraviglia di alcuni dialoghi e scambi di battute e attualizzarla senza forzature, nel rendere contemporanei e realistici i personaggi e la loro smania di apparire, le debolezze e il gioco di rapporti, citando anche tv e telefonini ma senza che mai compaiano in scena, dove solo di nuovo c’è l’aspirapolvere manovrato dalla servetta Lucietta, come sempre collegamento tra i personaggi e motore della vicenda, pettegola, orgogliosa, ma alla fine fedele.
Lei è lì che pulisce e ripulisce una casa la cui inaugurazione è continuamente rimandata per i troppi ripensamenti e rifacimenti dei nuovi padroni, che si fanno influenzare dal primo cicisbeo ben vestito di passaggio. Comunque all’apertura non si arriverà mai, ché Angiolino, per conquistare la moglie egoista e vanitosa, si è impegnato oltre misura, aggiungendo anche l’acquisto della nuova casa, assai superiore alle sue possibilità, finendo sommerso e distrutto dai debiti. Una miseria morale prima che materiale, in cui il denaro e l’avere vengono prima dell’essere, presentata con una lucidità chiara.
Prendono allora in mano la situazione le donne, nel gioco di un doppio palcoscenico, uno sfondamento dell’altro per rendere i due appartamenti contigui, donne goldoniane sino in fondo, tutte capaci a un certo punto di rendersi conto di quel che accade e farsene carico levando dagli impicci che hanno creato gli uomini. Ecco la vicina di casa signora Checca, pratica e volenterosa di aiutare il matrimonio di suo cugino con la sorella di Angioletto messo in forse da tante ristrettezze, e soprattutto Cecilia, che davanti al disastro si rende conto delle sue responsabilità e della vanità del suo fare. Andrà così a pentirsi e addossarsi le proprie colpe da quel Burbero benefico del vecchio zio Cristoforo, con quel suo passato di salumiere che lo ha reso comunque ricco ma dimenticato e tradito dai nipoti tanto da non volerne più saper nulla, ma poi capace di rispondere alla mozione degli affetti, tirando tutti fuori dai guai a patto che cambino davvero vita. Uno zio cui dà rovelli, malesseri e cedimenti con una loro vena caricaturale quanto basta un abile e divertente Stefano Santospago.
Del resto ”i caratteri son tutti presi dalla natura” dice lo stesso Goldoni, presentando quest’opera che ritiene essa solo ”bastato avrebbe a procurarmi quella riputazione che acquistata mi sono con tante altre”, visto che ”l’esposizione è facile, la condotta è semplice, la critica è vera, l’interesse è vivo e la morale è ragionevole e non pedante”. Questo vuol dire che per darle vita serve una buona recitazione che i giovani attori dimostrano, evidentemente ben guidati ma maturi e spinti al giusto ritmo e tempi, così da riuscire a divertire senza giocare troppo sulle macchiette, nemmeno dove era più facile con le figure del conte Ottavio o quel Fabrizio divenuto ora fatuo architetto. Allora vediamo di citarli tutti, ma partendo anche qui dalle donne e dalla irrequieta e sentimentale Menichina di Irene Giancontieri con la Cecilia umana nel suo percorso di Andreea Giuglea, la vivace Lucietta di Mersila Sokoli, la credibile Checca di Ilaria Martinelli e la rosina di Sofia Ferrari. E così gli uomini a cominciare dallo sbandato e sofferto Agiolino di Icopo Nestori, il divertente Lorenzino di Gabriele Pizzurro, l’Ottavio vacuo di Lorenzo Ciambrelli, l’attivissimo e disorientato Sgualdo di Alessio del Mastro, il Fabrizio di Gianluca Scaccia e il Toni di Edoardo De Padova.