Paolo Petroni
Al Teatro Basilica di Roma

Scrivere per non vivere

Lucia Mascino interpreta un monologo di Lucia Calamaro nel quale diventa una scrittrice che compone continuamente solo gli «inizi» dei suoi romanzi. Pur di evitare la vita vera

C’è un momento, alla fine di Smarrimento – monologo scritto da Lucia Calamaro per Lucia Mascino, prodotto da Marche Teatro e ora replicato a Roma al Teatro Basilica cui seguiranno varie riprese – in cui lo sguardo, il viso dell’attrice ridiventa improvvisamente presente e concreto e quegli occhi spersi, quella vaghezza, quello spegnersi e riaccendersi che andavano anche a costruire un’atmosfera, sostenuta dal dire, dalle parole, svanisce improvvisamente. E anche il pubblico riacquista la sua coscienza di spettatore e applaude la Mascino e la sua capacità di farci vivere la magia dell’arte teatrale.

Eppure l’attrice, in scena già mentre entrano in sala gli spettatori, sin dall’inizio interloquisce in maniera indiretta, ironica, con gesti o smorfie di commento silenzioso, e poi diretta durante lo spettacolo, ma, appunto, in maniera retorica, nelle vesti della scrittrice che interpreta, in crisi per via delle troppe pagine scritte, ma solo di inizi di nuovi libri che non riesce a poi a portare avanti, e quindi dando voce a Paola, personaggio di uno di questi in cui ritroviamo sempre lei, e persino il marito di questa, che vive altrove con i due figli. Comunque, proprio a mostrare le pagine bianche di un seguito che non arriva, è bianco l’abito e tutta la scena, bianchi i libri negli scaffali e la scrivania, grigio solo il divano, che dice di aver dovuto portare da casa per completare l’arredo necessario.

Si ride e lei è come rimproverasse di questo nel suo affanno di provare a andare oltre l’inizio, che è sempre nuovo, una prima volta, e si consola con citazioni anche scorrette e con effetto non corroborante ma desolante, come ”chi ben comincia è a metà dell’opera” attribuendolo a Pitagora, essendo invece un modo di dire citato da Aristotele e poi divenuto un noto verso di un Epistola di Orazio, o parlando sempre un poco a caso di Gilles Deleuze e chiedendosi se gli spettatori sappiano chi sia. Come poi arriverà a chiedergli: «Quanti ne avete voi, di inizi?».

Il suo scrivere è un «voler evitare la vita» mettendo lì il suo dolore, nella pagina, «stremata» perché non le riesce più, sola, nevrotica senza eccessi, è come volesse condividere la sua crisi, le sue ansie, il suo smarrimento (ovviamente). La Calamaro rende col suo stile, con frasi rotte, con affermazioni ma dal finale interrogativo, cui la Mascino aggiunge un tono sospeso, senza ben capire comicamente in che direzione stia procedendo e cercando affannosamente l’inizio giusto per reiventarsi, anche nella vita, e quindi andare avanti, sfatare quell’idea che poi lo svolgimento, il continuare, il quotidiano sia «meschino, poco epico, lenzuolesco» nel senso di biancheria che si sporca e si rilava e così via.

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