I deliri del bibliofilo
L’opera ferita di Dolores Prato
Storia del romanzo che rese celebre la scrittrice nata a Roma nel 1892 e che, al momento della pubblicazione, era quasi novantenne. Un caso letterario, pubblicato per la prima volta da Einaudi dopo i tagli di Natalia Ginzburg, editor d’eccezione
Con il passare del tempo e la progressiva pubblicazione di testi inediti ritrovati (l’ultimo in ordine di tempo è Educandato, dato alle stampe da Quodlibet nel 2023) la figura di Dolores Prato comincia a delinearsi più esaurientemente attraverso le sue molteplici espressioni. Nata nel 1892 a Roma da genitori che non la riconobbero e l’affidarono a uno zio prete che viveva con un’anziana sorella a Treia, paesino dell’entroterra marchigiano, la bambina venne in seguito affidata a un collegio di suore di clausura. Questi eventi segnarono profondamente la scrittrice che nel suo libro più celebre, Giù la piazza non c’è nessuno, ricostruisce in maniera dettagliata la propria infanzia e la propria formazione religiosa. Prima di pubblicare questo straordinario romanzo, Dolores Prato aveva licenziato due soli titoli, autofinanziati e pressoché introvabili: Sangiocondo, edito da Campana di Roma nel 1963, e Scottature, stampato dalla Tipografia Canella di Roma nel 1967. I libri vennero riproposti rispettivamente da Avagliano nel 2009, con il titolo Campane a Sangiocondo, e da Quodlibet nel 1996. Non ci sono quotazioni disponibili, in quanto sul mercato antiquario le edizioni originali non sono mai approdate, se non in forma sotterranea.
Ma il libro che ha fatto conoscere il suo nome è il succitato romanzo Giù la piazza non c’è nessuno che uscì nel 1980 presso Einaudi, quando l’autrice era quasi novantenne. Sembra sia stato Stefano D’Arrigo a incoraggiarla nel 1973 ad affrontare questo libro-monstre (l’edizione Mondadori, curata da Giorgio Zampa, si avvale di quasi 800 pagine) e la scrittrice attese a questo compito in maniera mirabile fino al 1979, circa un anno dopo la data in cui Einaudi accettò di pubblicarlo. Il relativo dattiloscritto, in una stesura provvisoria di quasi 700 cartelle, venne sottoposto all’attenzione dei funzionari della casa editrice torinese dall’amica Lina Brusa Arese, affittuaria dello stabile di via Biancamano. Furono Elena De Angeli prima e Gian Carlo Roscioni poi ad affrontare in lettura il romanzo ed esprimere parere positivo. Roscioni sollecitò la scrittrice in data 12 settembre 1978 a concludere il lavoro, anche se nelle lettere successive ribadisce il concetto di apportare tagli all’opera: «Spero con tutto il cuore che lei sia riuscita a trovare una conclusione all’altezza dei capitoli più felici (intendo per “conclusione” non la fine, impossibile, della vicenda, ma un plausibile compimento della scrittura), e soprattutto che abbia operato i forse dolorosi ma necessari tagli: senza i quali la mole del testo potrebbe scoraggiare l’editore e il lettore» (lettera del 9 maggio 1979 riportata nella ricostruzione operata da Elena Frontaloni per l’edizione Quodlibet del 2009, rifacentesi alla lezione di Zampa).
Le ultime cartelle verranno spedite nel luglio del 1979: il dattiloscritto finale comprende 1058 fogli, in parte messi a punto dalla Arese e dal marito. Il contratto viene firmato nel gennaio 1980 e a marzo arrivano le prime bozze, con i tagli approntati dalla Ginzburg, editor d’eccezione, che proponeva di modificare il titolo nel meno convincente Fiume disperso. Con Paolo Terni la Prato si lamenta per le mutilazioni che l’impianto originario dell’opera ha subìto. Il volume esce infine nel giugno 1980, diventando un vero e proprio caso letterario, coincidente con il libro d’esordio della scrittrice, senza che nessuno tenesse conto dei due volumetti stampati negli anni Sessanta. Una voce dissenziente fu quella di Giovanni Raboni che su «Tuttolibri» del 9 agosto 1980 avanzò qualche riserva sull’impianto dell’opera.
Il romanzo doveva costituire la prima parte di un progetto mastodontico, suddiviso in cinque parti (una sorta di Recherche autoctona), in cui si ricostruiva, in maniera circostanziata e lirica al contempo, la vicenda biografica dell’autrice. Qui veniva preso in considerazione il periodo mortificante e, purtuttavia, propositivo dell’infanzia. Il libro, di 282 pagine, uscì come 268° titolo della collana «I nuovi coralli», a cura di Natalia Ginzburg che operò all’uopo parecchi tagli, suscitando la più o meno manifesta contrarietà dell’interessata. L’autrice provvide infatti, insieme a Bruno Fiore, uno studente universitario che la coadiuvava, a ripristinare in qualche punto la lezione originaria, sostenendo che «per riportare all’originale abbiamo dovuto spesso aggiungere pezzi dattilografati da comporre». Per il testo del risvolto si misura invece con Carlo Carena.
La princeps einaudiana è oggigiorno relativamente facile da trovare, a prezzi alquanto contenuti. L’autrice inviò ad Enzo Golino, direttore all’epoca dell’«Espresso», una lettera in cui ribadiva di non capire le ragioni che avevano mosso la Ginzburg «a manomettere un po’ qua, un po’ là il testo», aggiungendo diplomaticamente: «Ma poi ho capito e ho finito per volerle bene anche per questo».
La versione integrale venne infine stampata postuma da Mondadori nel 1997 (l’autrice era scomparsa nel 1983), a cura di un ammiratissimo Giorgio Zampa. Figura in calce un opportuno glossario con i termini gergali e dialettali adoperati. A Zampa si deve anche la curatela di Le ore, uscito per Scheiwiller in due parti nel 1987 e nel 1988, poi accorpato nel volume eponimo di Adelphi del 1994, oltre a un’anticipazione di alcune parti inedite di Giù la piazza non c’è nessunoin un volumetto fuori commercio intitolato Le mura di Treia e altri frammenti del 1992. Il titolo mondadoriano, accolto nella collana «Letteratura contemporanea», è rilegato e presenta una sovraccoperta figurata; in quarta si precisa che è «un capolavoro salvato dall’oblio». In una recensione apparsa all’epoca, Lalla Romano scrisse: «Anch’io mi allineai con chi si scandalizzò per i tagli. Ebbene, adesso che ho confrontato il testo completo con quello decurtato, affermo con tutte le mie forze che l’intensità e l’intrinseca bellezza-verità dell’opera non venne distrutta: solo, appunto, ferita, decurtata; ma risplendeva anche così».