Andrea Carraro
Su “La zia pazza e altre storie di famiglia”

Storie di borghesia

Il nuovo volume di racconti di Leopoldo Carlesimo affronta tematiche familiari. Ne nasce quasi un grande ritratto della "buona" borghesia romana

Il nuovo libro di racconti di Leopoldo Carlesimo – La zia pazza e altre storie di famiglia, Iod – è una raccolta atipica nel repertorio dello scrittore-ingegnere romano, che sinora si era sempre cimentato – da Baobab (Gaffi, 2006) sino a Il perimetro Khun (Iod, 2021) – sullo schema narrativo del racconto di cantiere all’estero in paesi del Terzo Mondo, dove l’autore si trova a lavorare per conto di compagnie occidentali. In quest’ultima raccolta, l’ambientazione è invece perlopiù occidentale, italiana, e, come suggerisce il titolo, le storie parlano di legami familiari/coniugali, in contesti di borghesia romana medio-alta con vicende in vari modi interconnesse e una scrittura psicologica che fa largo uso del non detto, dei salti temporali, dei cambi di ambientazione.

Come nei tre bellissimi racconti dolomitici Su in Valle Aurina, A Lappago e Alla diga di Neves, dove la stessa vicenda di un tradimento coniugale, – un uomo che tradisce la moglie con la sua migliore amica durante un weekend lungo in montagna dove tutti e tre i protagonisti sono presenti, – e l’uomo scivola e cade in un crepaccio nel corso di un’arrampicata, – è scomposta in tre movimenti, seguendo tre punti di vista differenti.  O come, in un’altra felice triade narrativa, con setting scolastico-familiare, – nei quali una storia di violenza domestica su una bambina undicenne – Nina – viene raccontata da tre prospettive diverse, sfalsate nei tempi, prima dal punto di vista delle insegnanti della scuola che si accorgono dei maltrattamenti e cercano come possono di porvi riparo, poi dal punto di vista del padre alcolista che picchia la bambina sino alle estreme conseguenze, infine da quello della compagna che si trova ad assistere la figlia in coma nella rianimazione di un ospedale, osservandola da una vetrata, in una scena di raggelata impotenza: “Si sentiva inerte, svuotata di desideri. Aderente a quel vetro, passo passo, recuperava lentamente un rapporto con Nina. Entrò un’infermiera. Non la degnò di uno sguardo e varcò veloce la porta della sala, che s’aprì al passaggio del badge elettronico, emettendo un sordo ronzio e si richiuse con uno schiocco metallico alle sue spalle”.  Si avverte un vivo senso del tragico che è uno dei punti di forza di questi racconti familiari, insieme alla narrazione multipla e alla temporalità non lineare – che fanno pensare un po’ alla canadese Alice Munro, grande specialista della forma breve.

Più tradizionali nella struttura, ma ugualmente ricchi di pathos, e di “movimento psicologico” nei personaggi, partendo dal molto dialogato Eredità, dall’andamento teatrale, che mi ha fatto pensare un po’ a Pierre e Jean di Maupassant, nel quale troviamo due fratelli, antipodici nel carattere e nelle abitudini di vita, che si trovano, dopo il funerale del padre, nella casa paterna, e si affrontano in un duello a tutto campo, navigando fra le tante fotografie familiari, fra confessioni e rivelazioni, senza risparmiarsi colpi bassi. Mentre Una coppia di dentisti (né in alcun cimitero al mondo) – dove il racconto familiare prende una inaspettata piega teatrale nell’ultima parte, con tanto di didascalie e “a parte”, al cimitero del Verano, – la vedova protagonista che dialoga con il marito morto sistemando la sua lapide, rivelandogli cose che in vita gli aveva sempre taciuto, e infine facendogli una strana, postuma richiesta.

Cena in famiglia con piscina è invece una storia carveriana, in cui una situazione di calma apparente viene sconvolta dal brusco intervento del Caso: ci troviamo calati in una cena familiare della buona borghesia romana che si svolge in una villa al mare con piscina, durante la quale emergono, nel tono lieve della conversazione, piccole invidie e dissapori fra i protagonisti. E finisce male – il racconto lo anticipa, in una immagine di silenziosa e plastica intensità, nell’incipit, ma solo alla fine del racconto comprendiamo fino in fondo l’entità della tragedia che quell’icona sottende.

Mentre Un pastore di nome Pit è ancora una storia dolomitica, divisa fra passato e presente: un sessantenne al secondo matrimonio si ritrova per caso a rivivere un tragico episodio del passato che coinvolge un grosso cane pastore, nel luogo esatto in cui si è consumata la tragedia trenta anni prima. E ancora: il crudo e poetico, La regina del giardino delle erbacce, di ambiente scolastico-familiare, che si potrebbe associare al ciclo di Nina: protagonista stavolta una adolescente chiusa e irrequieta in una scuola della più degradata periferia romana. Una delle insegnanti riesce inaspettatamente a stabilire un rapporto con la ragazzina, quando ormai è troppo tardi.

Di ispirazione autobiografica, La zia pazza, che dà il titolo al libro, e gli fa da ideale preludio, un po’ memoir un po’ racconto (iniziatico) di formazione – che narra di una pro-zia pittrice dell’autore, appartenente a ramo israelita della famiglia, con una pessima reputazione familiare per le sue frequentazioni maschili, per la sua libertà sessuale, la quale, quando lui era ragazzino, lo faceva posare per studi di “nudo di fanciullo” in diverse sessioni di pittura nel suo studio-atelier e che lo svezzò durante l’adolescenza. La donna riuscirà miracolosamente a scampare alle deportazioni nazi-fasciste nascondendosi in una casa di campagna nelle Marche, mentre il resto della famiglia, all’indomani delle leggi razziali, troverà rifugio in Argentina.

Gli ultimi tre racconti invece “puntano verso l’Africa”, – tornando alla ruvida e dura vita di cantiere, che Carlesimo ha esplorato in tante sue narrazioni per così dire “dal vero”, con personaggi sempre un po’ scissi, contraddittori, violenti e una scrittura che può vantaggiosamente contaminarsi con il reportage e con il racconto di viaggio.

Come succede in Affari di famiglia, dove due ex-colleghi di cantiere, oggi in pensione, si ritrovano a pranzo nella casa avita di uno di loro, a Priverno, in Ciociaria. Ma il racconto-reportage comincia prima, con il viaggio in automobile per raggiungerlo, Priverno, da Roma, partendo da San Giovanni, e la figura del collega che si precisa un po’ alla volta: la sua provenienza da una famiglia nobile e decaduta, la sua fuga in Africa subito dopo il suicidio del padre (fallito, pressato dai creditori), il suo carattere rozzo e ostinato, i suoi intrallazzi in margine ai cantieri africani dove lavorava, per aumentare le entrate da inviare in Italia alla sorella, a sua volta impegnata a pagare i creditori e riscattare le ipoteche…. “Il pedigree di famiglia di Alfio Neroni è sempre stato una faccenda seria. Un cruccio profondo, una questione complessa. Il suo complesso, si può dire, il centro del garbuglio. Qualcosa in cui c’è di mezzo l’amor proprio, i soldi, il sesso e pure altro…”. Dopo il pasto abbondante e ricercato nel palazzetto di famiglia, fra il collega sanguigno e rozzo e la sorella segaligna, impettita, formalissima, c’è la visita alla estesa tenuta del collega, a bordo di un fuoristrada, dove a poco a poco scopriamo il microcosmo africano cantieristico che Alfio ha edificato insieme alla sorella, con molti ex colleghi di cantiere, e lavoranti africani, tutti che lavorano alla sua impresa familiare di ristrutturazioni ville, e vivono nelle sue terre, in baracche o quasi, e c’è perfino un baretto africano, un “maquis. Un maquis de la brousse” in mezzo al bosco… “Sotto le fioche luci colorate, sulla pista circondata di boscaglia e avvolta dalla penombra, una decina di ragazze ballano. Ragazze africane giovanissime, petites soeurs che i suoi operai gli procurano facilmente”. Alfio, il collega, ubriaco, balla “da plantigrado bianco” in mezzo alle ragazze. E il narratore che alla fine si lascia trascinare sulla pista e si mette anche lui a danzare… Una immagine di valenza simbolica, già presente in un racconto del Perimetro Kuhn, in cui due culture paiono fondersi, sincretisticamente, spontaneamente.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

Facebooktwitterlinkedin