Sulla morte dell'oppositore di Putin
La voce di Navalny
«Chi vuole combattere la guerra deve solamente combattere i tiranni». Risuona come un testamento la frase di Tolstoj citata da Aleksej Navalny nella sua “ultima dichiarazione”. Ne parliamo con Giulia De Florio, curatrice del libro “Proteggi le mie parole” che racconta il destino dei dissidenti di oggi attraverso le loro testimonianze
Su queste pagine mi è già capitato di discutere con Niccolò Pianciola, docente di Storia dell’Eurasia all’Università di Padova, di “Memorial Italia” (https://www.succedeoggi.it/2023/10/la-spina-nel-fianco/), benemerita Associazione nata da “Memorial” russa, chiusa da Putin, insignita del Premio Nobel per la Pace, attenta alla violazione di diritti umani nello spazio post sovietico e alla storia dell’Unione Sovietica e della Russia post sovietica. In occasione del recente assassinio politico di Navalny, ho rivolto alcune domande a un altro membro di “Memorial”, Giulia De Florio, che insegna Lingua e cultura russa all’Università di Parma, autrice di diverse pubblicazioni anche come traduttrice dal russo. Parlo di assassinio politico per Navalny perché se in una dittatura un oppositore viene arrestato, condannato a trent’anni e spedito in carcere oltre l’Artico, in un carcere estremo denominato “Lupo polare”, dico – senza tanti fronzoli – che è per toglierlo di mezzo. Che poi muoia avvelenato o no non cambia molto. Per quale motivo è stato portato lì e messo in cella di punizione per 27 volte? Reputo quindi inutili le discussioni sulle cause della morte. Fa ridere, se non fosse tragico, l’affermazione del noto esponente della Lega: «Additare colpevoli mi sembra prematuro e inopportuno». Come se Navalny fosse stato portato in un carcere estremo, per non dire gulag, in Siberia a prendere l’aria fresca! Perché non parlare piuttosto, opportunamente, dei metodi staliniani di un ennesimo dittatore russo, di un regime criminale verso il quale non ci sono, non ci possono essere, scusanti?
Professoressa De Florio, ci parli del libro Proteggi le mie parole (Edizioni e/o) che ha curato con Sergej Bondarenko per “Memorial”, volume che racchiude le “ultime dichiarazioni” in tribunale di persone, tra il 2017 e il 2022, che hanno osato mettersi contro il potere dittatoriale di Putin. Navalny ha subito dieci procedimenti, deteneva il record, quindi, dell’ultima dichiarazione. Nel libro c’è la sua autodifesa del 17 marzo 2022…
Io e Sergej Bondarenko abbiamo pensato questo libro nel maggio del 2022, a tre mesi circa dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. Eravamo insieme a un festival per parlare di Jurij Dmitriev, presidente della sezione di “Memorial” a Petrozavodsk, in Carelia, l’uomo che ha scoperto le fosse comuni di Sandormoch rendendole un luogo di memoria [per chi volesse approfondire la storia di Sandormoch e di Jurij Dmitriev consiglio il volume di I. Flige, Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria, Stilo Editrice 2022]. Dmitriev è attualmente detenuto in una colonia penale della Mordovia, con una condanna a quindici anni di reclusione che, per un uomo di 68 anni, potete immaginare cosa significhi. Per l’incontro mi ero riletta una delle sue “ultime dichiarazioni” e mi è tornata in mente quella di Naval’nyj, e poi quella di Kirill Serebrennikov e poi quelle della redazione di DOXA… insomma, ho capito che avevamo di fronte le nuove voci del dissenso. E chissà quante non erano ancora state ascoltate. “Memorial”, da sempre, guarda all’individuo, al singolo destino. Mi sembrava importante farne conoscere almeno qualcuno, di questi destini spezzati. Sergej, da storico, ha aggiunto la prospettiva necessaria: non stavamo parlando soltanto di repressioni qui e ora, stavamo raccogliendo il testimone dei dissidenti e delle dissidenti sovietiche, delle ultime dichiarazioni di Andrej Sinjavskij, Jurij Daniel’, Natal’ja Gorbanevskaja, Vladimir Bukovskij, Arsenij Roginskij e altre ancora.
Il primo criterio, quindi, era temporale, volevamo dare una minima prospettiva storica, così abbiamo pensato agli ultimi cinque anni [il libro è uscito a ottobre 2022]. L’altro criterio che ci ha guidato era la diversità. Volevamo far parlare quattordicenni come Nikita Uvarov e sessantenni come Jurij Dmitriev, artiste come le Pussy Riot e storici come Ojub Titiev, giornaliste come le redattrici di DOXA e dottorandi come Azat Miftachov, personalità in vista come lo stesso Naval’nyj e persone quasi o totalmente sconosciute come Viktorija Petrova. Seppur in piccolo, volevamo dare uno spaccato della società russa, e di come fosse minacciata nella sua interezza da un regime sempre più dittatoriale. Il messaggio era chiaro: non devi essere per forza in prima linea per finire nel tritacarne giudiziario, basta avere una propria idea, e volerla esprimere, e lo Stato viene a cercarti. E ti trova.
Chi era Navalny? Ci può fornire seppure in breve un ritratto completo di questo oppositore politico? Sui social è partita la macchina del fango. Diversi post, commenti, insistono sul fatto che una decina di anni fa fiancheggiava movimenti di estrema destra in Russia, come anche su certe sue forti dichiarazioni…
Di Naval’nyj, in questi giorni, hanno parlato tutti. Consiglio sempre di ascoltare le parole della giornalista Anna Zafesova che ha scritto un libro su di lui ed è lucida e analitica. Io non sono una giornalista, ma dirò le mie impressioni: Aleksej Naval’nyj era (e, mi creda, faccio fatica a usare il passato) una personalità dotata di un carisma eccezionale. Ha segnato in modo indelebile la storia recente della Russia. Ha compiuto una parabola politica, ed esistenziale, incredibilmente densa. Il giorno della sua morte su Facebook, Dar’ja Serenko, attivista e poetessa, una delle più note portavoce del FAS (Movimento Femminista contro la guerra), ha scritto: «Non postate sue foto in bianco nero. Aleksej era un uomo dai colori molto vivaci». Come sempre, l’artista coglie il dettaglio. È proprio così, Naval’nyj era un uomo a tinte forti, vivido, esagerato in molte sue manifestazioni, e di questa sua irruenza, verbale e performativa, aveva fatto il proprio segno distintivo, riuscendo in tempi rapidi a passare da “semplice blogger” – come lo definivano in molti – a primo oppositore politico e nemico giurato del presidente della Federazione Russa. Lo ha fatto con un’intelligenza e abilità politiche non comuni, sapendo trasformarsi e adattare la propria visione a un contesto sociopolitico imbrigliato ma in continuo mutamento. Nessuno nega la matrice nazionalista e, per certi versi, populista, del programma politico di Naval’nyj. Così come non si dovrebbe negare che, col passare degli anni, abbia sviluppato un pensiero molto più articolato e si sia allontanato da certe derive di estrema destra, proclamando valori democratici di stampo europeo. Se a questo si aggiunge che per le sue idee è stato prima avvelenato, poi arrestato, poi recluso e infine ucciso, non si può non ammirarne il coraggio e la libertà interiore.
Vorrei che in questi giorni si sottolineassero alcune sue formidabili intuizioni: l’idea che la corruzione sia un nodo nevralgico del regime putiniano, e che vada combattuta a ogni livello (per tale motivo aveva fondato il FBK, la Fondazione anti-corruzione, ora considerata organizzazione estremista), la trovata dello “Smart Voting” che aveva l’obiettivo di privare della maggioranza il partito Russia Unita alle elezioni regionali e federali, e molte altre sue azioni facevano di Naval’nyj un leader serio, brillante e ambizioso. Non sapremo mai che uomo di Stato sarebbe stato, ma aveva la fibra, il linguaggio, la postura del grande leader. Ne è prova il seguito che è riuscito a crearsi negli anni e che oggi si stringe, simbolicamente o meno, intorno ai famigliari e ai suoi cari. Da giorni in tutto il mondo il suo nome viene scandito in piazze, concerti, manifestazioni; ovunque, persino in Russia, vengono deposti fiori intorno a monumenti e simboli che ricordano le repressioni sovietiche, nonostante un simile gesto, all’interno del paese, spesso implichi arresti e future persecuzioni.
Come ha ricordato di recente Adriano Dell’Asta, Aleksej Naval’nyj si è assunto, fino in fondo, il peso e la responsabilità del suo paese. Ha insegnato ai suoi concittadini e concittadine che non si deve avere paura. Avete mai sentito Putin parlare di futuro? Naval’nyj sognava la «bellissima Russia del futuro». Il suo linguaggio era immediato, ma mai banale, la sua ironia non si piegava nemmeno dietro le sbarre. Quando stavamo scegliendo i testi da inserire nel libro, io e Sergej non abbiamo avuto dubbi: quella del 15 marzo è l’“ultima dichiarazione” più “post-moderna” di Naval’nyj. Ne ha rilasciate altre più enfatiche o più politiche, forse più incisive, ma qui c’era tutta la sua personalità: inizia il discorso prendendo in giro il potere, da uomo libero – quale era intimamente –, che viene zittito e interrotto in maniera goffa e meschina da un potere goffo e meschino. Ma è lui che domina la scena, scherza, sorride alla telecamera. Naval’nyj è stato per tanti un eroe, per alcuni un nemico. Per moltissime russe e russi una speranza. Per i prigionieri e le prigioniere politiche un faro. Per la sua famiglia un padre, un figlio, un marito amato e incoraggiato. Da tutti dovrebbe essere considerato una vittima del potere repressivo, violento e criminale che da 24 anni Vladimir Putin esercita nel suo Paese».
Vorrei che ci soffermasse sul pensiero di Navalny sull’invasione dell’Ucraina. Potrebbe essere stata questa la spinta per il regime a deportarlo in Siberia?
Analisti ben più esperti di me possono dare spiegazioni migliori, ma credo che la deportazione sia stata dettata dal desiderio di renderlo sempre più inoffensivo, sempre meno in grado di avere una “piazza”, per quanto virtuale, a cui rivolgersi. È una pratica antica: nell’Ottocento i condannati si mandavano in Siberia. E Naval’nyj non è il primo: Kara Murza è stato trasferito a Omsk e prima di loro ricordiamo, per esempio, i dieci anni trascorsi in Siberia da Michail Chodorkovskij. La lontananza dal centro offre molti vantaggi al sistema repressivo: c’è minore attenzione mediatica e maggiore possibilità di compiere soprusi di ogni genere (dalle angherie più piccole a gesti più eclatanti), c’è una oggettiva difficoltà logistica per avvocati/e e famigliari che possono visitare e comunicare meno facilmente con il recluso o la reclusa. Non ultimo, il clima polare della colonia penale in cui era rinchiuso Naval’nyj poteva aggravare più rapidamente condizioni di salute già minate da anni di carcere e dall’avvelenamento. Infine, in certe decisioni, credo ci sia sempre una valenza simbolica: poter disporre come si vuole della vita di un uomo, gettarlo – letteralmente – nell’angolo più remoto del Paese deve ricordare alla società russa che il suddito è in balia del tiranno, ribadire qual è la fine che attende chiunque si opponga al potere.
Qual è la situazione attuale delle opposizioni in Russia?
La situazione è drammatica. Intendiamoci, drammatica non vuol dire senza speranza o che sia tutto inutile o sbagliato. Al contrario. Da fuori è difficile avere il polso del Paese, ma le notizie per fortuna passano ancora e c’è una parte della società che non si arrende ed escogita tecniche di sopravvivenza e dissidenza. I leader politici rimasti in Russia sono in carcere a scontare pene lunghe o lunghissime. La parte più attiva del Paese, nel suo complesso, è strettamente sorvegliata, censurata, soffocata. La parte più povera, nel migliore dei casi, vive un momento di riscatto economico e, per certi versi, sociale. Nel peggiore, continua la vita di prima, difficile e lontana dai riflettori o dalle discussioni intellettuali. Tuttavia, alcune recentissime ricerche indipendenti dimostrano che il consenso a Putin si sta affievolendo. Secondo i nuovi sondaggi – realizzati con una metodologia molto interessante – la maggior parte delle persone non contesta il presidente, ma vorrebbe che si concentrasse sull’economia e non sui “nazisti ucraini”, sulle sanzioni e non sul “glorioso passato sovietico”. Non è una vera e propria contestazione, ma la perdita del consenso potrebbe cambiare gli equilibri interni.
Al di fuori della Russia l’opposizione è frastagliata, l’emigrazione è segnata da dissidi interni, aggravata dalla situazione di perenne instabilità che non aiuta a compattarsi. Ci sono pratiche di solidarietà che continuano, nonostante tutto, ma le difficoltà crescono di giorno in giorno. Per questo è ancora più importante che l’Europa e l’intero Occidente non volga altrove lo sguardo, che faccia tutto il possibile per porre fine alla guerra in Ucraina e inizi un processo giudiziario contro chi l’ha scatenata. Come dice Aleksej Naval’nyj alla fine della sua “ultima dichiarazione”, citando i diari di Lev Tolstoj: «La guerra è figlia della tirannia. Chi vuole combattere la guerra deve solamente combattere i tiranni». Mi sembra che sia questo il nostro compito.