Tommaso Leotta
A proposito di “Abel”/1

Il volo di Baricco

Elogio del nuovo romanzo di Alessandro Baricco: un romanzo tra il western e il metafisico; un vero e proprio rifugio (letterario) nella fantasia

E dire che con quel suo stile lì, quel ritmo dolce e inafferrabile, quelle frasi che saltellano tra la musica e la poesia, uno va a pensare che ormai le ha viste tutte. Che sia finita l’energia, terminata la meraviglia. Invece, bastano le prime righe del suo ultimo romanzo, Abel, edito da Feltrinelli; senti una vibrazione, anzi, uno sparo, ed ecco che si cade ancora in quel mondo lì.

Quello dove i pianisti non scendono a terra, dove le locande esistono in luoghi immaginari, dove i geni puliscono i cessi, dove i soldati sfidano la guerra tenendosi stretta la mano di una bambina, dove si scrivono lettere d’amore a persone non ancora conosciute e dove i paesi ridono per intere giornate; e si è subito pervasi dalla quantità di energia emessa quando si cade in quel tipo di storie.

Che poi non è neanche cadere. Si può associare meglio a quella incauta leggerezza della giovinezza, quando ci si lancia in alto e per un frammento di tempo ci si sente leggeri, leggerissimi, tanto che basterebbe un soffio, un battito d’ali, un piccolo sforzo di fantasia, e via a prendere il volo. È una sensazione che accade a volte nella vita: spesso da innamorati, talvolta nel sesso, mai una volta a riviverla nei ricordi. In ogni caso, si tratta comunque di un frammento e si può contestare certo che da un frammento non si cava fuori granché.

Questo, Alessandro Baricco, non sembra proprio volerlo capire, tanto che in quel frammento ci ha fatto passare un intero mondo letterario, un certo modo di vedere il mondo e una dolcezza capace di travolgere ogni scenario che incontra attraverso il suo stile. Questa volta è toccato al mondo western, o meglio ancora, all’ “ovest”. Lo ha definito lui stesso un “western metafisico”, e se sembra una cosa assurda a dirsi, dopo aver letto l’ultima riga sarà la cosa più ovvia del mondo.

Eppure, non è l’ovest delle pistole, né la filosofia di Hume o di Aristotele a rimanerti addosso per tutto il romanzo. È qualcosa che spiegherei con quella intimità tipica delle lettere. Quelle che vengono spedite da lontano, quelle che prima di arrivare a destinazione vivono di una storia loro, di un viaggio e di una vita a parte, e, ragazzi, che vita. Ci si tuffa nella storia di Abel, vicesceriffo e pistolero sopraffino, eppure qualcosa di intimo si fa spazio dentro il cuore di noi lettori. Vuoi per la parte sulla malattia così legata alle vicende personali dell’autore negli ultimi anni, vuoi per un certo epilogo dei vari personaggi – gli stessi epiloghi da cui Baricco è sempre un po’ fuggito nei suoi romanzi, lasciando ai finali il mistero di qualcosa che non ne vuole sapere di chiudersi. Se da una parte si è rapiti dalla storia, dall’altra nasce la consapevolezza di una specie di dialogo con lo scrittore, mai così tanto esposto nei suoi precedenti romanzi. Tutto questo non toglie al western il suo ritmo. Uomini che si guardano a lungo per poi risolverla a modo loro: fucili alle mani e velocità di mira. Ma è attraverso quelle forature dei proiettili, (forse sarebbe troppo citare Lucio Fontana, ma diciamo che rende l’idea), che in alcuni squarci compare quello sguardo lì, quello dietro il pianoforte di Danny Boodman, dietro quel suo modo di raccontare la letteratura, dietro un uomo nascosto sempre dove c’è più luce.

E poi c’è questa storia dello sparare. Che uno spari bene, può anche essere interessante, per carità. È che non si tratta solo di sparare: è più un modo di vivere. Si può associare la vibrazione di Abel alla lenta e paziente arte del “raccontare”.

È questo che rende il protagonista molto più appetibile di un semplice cowboy con la stella. È la vita di un uomo che passa dal sopravvivere al vivere e infine al nascere. Parlate con qualunque scrittore si trovi sulla faccia della terra. Vi confermerà il medesimo percorso ogni volta che si mette a scrivere. Infatti, si legge questo libro non di rado pensando allo scrivere e al leggere storie come gesti che hanno a che fare con una loro propria eternità. «Passai nottate intere a leggere Platone, sant’Anselmo e Spinoza. Non ci capivo niente, ma mi è rimasto qualcosa come la sensibilità a un colore particolare. Una cadenza singolare, un accento straniero nel parlare». Baricco fa parlare così Abel. Eppure, dentro qui c’è buona parte dell’eleganza del suo scrivere. E del nostro leggerlo.

Ritornando alla storia del cadere. Per l’appunto, alla fine, si cade. Non si può vivere di leggerezza, altrimenti le cose rimangono solo frammenti di fuga. Ecco, Baricco in questo romanzo fa una cosa che spiegherei così. Fa scontrare la poesia del vivere contro il cinismo del rendere il vivere un mestiere pratico. Mi spiego meglio: c’è chi vola e chi inchioda le scarpe a terra. Incontriamo nella storia chi punisce i malfattori facendoli studiare il francese e chi nella predica funebre maledice il creato bestemmiando. C’è un cieco che si fa leggere i libri di filosofia e chi fa saltare una chiesa pur di salvare la propria madre dal patibolo. Cose così. Lo scontro più bello, ma anche più profondo della sua scrittura, si gioca però dentro i personaggi. In quel minuscolo spazio tra la tenerezza e il cinismo, tra l’essere perduti ed essere eterni.

Quel punto che, se si impara a cavalcare, restituisce un magico gesto alla caduta: quello di affossare con un piede mentre con l’altro si prepara già al successivo salto.

In modo analogo, si potrà notare, si vive.

Rubo ancora una frase di un suo personaggio. «Il mattino dopo lo vedemmo sellare il cavallo – una cerimonia. Ci chiese se c’era una pista che andava verso sud. Gli dissi che di pista ce n’era una sola, e andava ad est, verso la prima città. Lui scosse la testa, come se il mondo avesse sprecato ancora una volta l’opportunità di avere una qualche poesia. Se ne andò senza neanche salutare, perché spesso gli uomini che hanno i coglioni per andarsene non li hanno poi per dire grazie, o semplicemente addio».

Ecco, quando si finisce un romanzo del genere, si alza la testa dal libro con la nostalgia tremenda di non potere andare con quell’uomo, con tutti gli uomini, nel sud di Baricco. Ed è una fregatura questa. Ma se si può cavare fuori una certezza da questa vita, è che sono le storie quelle che ci si salvano dalle fregature, sempre. Ed è una storia, questa, a cavallo con Abel, con Baricco, con il western e il metafisico, dove si seminano “grazie” qua e là, tra una risata e una malinconia canaglia, nel percorso tra le pieghe di una lettura che sa di un lungo addio, ma che sempre sta tornando a casa.

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