Al Teatro Argentina di Roma
Poesia dei bassifondi
Massimo Popolizio ripropone "L'albergo dei poveri" di Maksim Gorkij: un classico del realismo trasformato, con una compagnia di ottimi attori, in una favola lirica
L’albergo dei poveri di Maksim Gorkij, conosciuto anche come “Bassifondi” o “Nel fondo” nelle varie versioni teatrali e cinematografiche che si sono succedute, è un dramma dalla scrittura particolare, frutto di quel realismo russo che porta con sé sempre un po’ di lirismo e un valore esistenziale: ”Siamo tutti pellegrini su questa terra… e ho sentito dire che anche la terra stessa sia pellegrina nel cielo”. Quindi da leggere e rappresentare oggi, a 120 anni da quando fu scritto, mostrando, per denunciarla, la vita dei vagabondi e poveri diseredati della Russia di allora, evitando quel realismo che appiattirebbe il testo e trovando un qualche senso più moderno dell’edizione 1947 di Giorgio Strehler, che inaugurò il Piccolo di Milano, più legata al vero e assieme con un accento poetico di straniamento beckettiano che pare avesse, a leggere i resoconti e basandosi sull’edizione televisiva della ripresa del 1970.
È quel che avevano ben chiaro Emanuele Trevi, che firma l’adattamento, e Massimo Popolizio che l’opera ha voluto proporre e realizzare per il Teatro di Roma in coproduzione col Piccolo di Milano, firmandone la regia e interpretando la figura centrale di Luka, attratti semmai da una lettura di bassifondi dostoevskiani e, evitando ogni sentimentalismo della necessità di resistere illudendosi dei vari personaggi dalle sottolineature espressioniste in cui ogni vera speranza di riscatto umano e sociale sembra perduta.
Popolizio-Luka si presenta così come una sorta di nocchiero in questo stanzone, che dice di aver pensato quasi fosse la stiva della nave della società, il mondo di sotto, dove vivono un gruppo di poveri biecamente sfruttati dalla coppia padrona del luogo, tra tavoli e letti che costruiscono sul palcoscenico una sorta di altro palcoscenico e passerella, perché il dramma è ora lo specchio di un’umanità derelitta, misera, emarginata, che sopravvive grazie ai sogni, all’immaginarsi altro, in una situazione quasi pirandelliana (“A che serve la verità? la verità non è sempre un bene”), in cui la figura di Luka, ironicamente sapienziale, può sembrare una sorta di Laudisi dallo sguardo altro, uomo di passaggio, pellegrino tra il truffatore e il portatore di conoscenza, che arriva e con le sue affermazioni, le sue letture della vita e degli uomini, semina inquietudine, e, invitando a conquistarsi la propria libertà, illude gli altri, a cominciare dal ladro Pepel (interpretato da Raffaele Esposito) e l’Attore (Luca Carbone), così che il finale, lui partito, sarà inevitabilmente tragico.
La verità è che in questo mondo di miseria ma di umanissime passioni, di amori e sesso, di odi, di sfide, di fatica e soprattutto di eterne bevute di vodka, che aiuta a “non sentire più nulla”, bisogna pur sopravvivere e allora tutti vivono in bilico tra quel che forse sono davvero stati e un alienato gioco delle parti, dall’uomo con “l’organismo devastato dall’alcol” che si illude di essere ancora un attore, al Barone (Giovanni Battaglia) che dice di essere un signore e parla di quando era parte di una ricca famiglia di cui ha sperperato ogni cosa; da Natascia (Diamara Ferrero) che dice “io invento, invento sempre e aspetto che accada qualcosa di straordinario”, a Nastja (Carolina Ellero) che legge e sente quasi come vero il romanzo L’amore fatale, così la regia li fissa alcune volte in una sorta di simbolico controluce.
Altri invece sfogano in violenza e desiderio fisico la loro impotenza, a cominciare da Vasilisa (Sandra Toffolatti) col suo frustino e le botte date per gelosia alla sorella Natascia. A questi si aggiunge la bellissima invenzione, inserto vivo come lo sono alcune battute prese da Cechov, Puskin sino a Corman McCarthy, di una figura nuova, contemporanea, quella del cosiddetto Principe (Martin Chishimba), un immigrato di colore musulmano che prega (portando anche suoni della sua lingua) e invita a comportarsi secondo coscienza compagni di sventura che replicano: “non sono mica ricco da poter avere una coscienza”.
Una regia che lavora non sul realismo appunto, sin dai particolari costumi di Gianluca Sbicca, che pure hanno una loro verità, agli attori (oltre ai già citati, Raffaele Esposito, Michele Nani, Aldo Ottobrino, Giampiero Cicciò, Francesco Giordano, Gabriele Brunelli, Marco Mavaracchio, Silvia Pietta e Zoe Zolferino) tutti da encomiare per impegno e qualità, i quali, nel sostanziale gioco corale, nell’eccitazione, nei momenti di scontro e disperazione, trovano una loro identità, si alterano e nell’eccesso non vanno sopra le righe, forti di un buon ritmo generale e mostrando una sostanziale fisicità che diviene concretezza e dà forza vitale e esemplare al tutto.
Le fotografie dello spettacolo sono di Claudia Pajewski.