Ancora su "L'uomo della posta"
Lo specchio dei sogni
Nel nuovo romanzo di Nando Vitali (intriso di immaginario napoletano e non solo) i vivi e i morti convivono e si confondono come nei sogni. Perché la vita non ha mai contorni certi
Due parole sull’ ultimo libro di Nando Vitali, L’uomo della posta, Castelvecchi. Molto bello il prologo – con la “visione” potente e inaspettata del sottomarino Audace, affondato dalla marina inglese nel Tirreno nel febbraio del ’43, – tutta immaginata, tutta “inventata” dallo scrittore: con la carcassa aggredita dai pesci, dalla flora marina: “Fantasmi, polpi giganti, – scrive – calamari, occhi allucinati a cercare chissà cosa… ma era tutto inutile… L’enorme bara d’acciaio era una campana vuota senza suono, dove dormivano da oltre mezzo secolo, sepolti e prigionieri, cinquantasei marinai della gloriosa marina di Mussolini. Il Duce”. Quel sottomarino avrebbe dovuto ospitare anche il padre del protagonista narrante, rimasto a terra per un caso, per un disegno della dea fortuna, per il provvidenziale parto prematuro della moglie, che si concluderà in un aborto. Scampare alla morte, gli permetterà tuttavia di mettere al mondo Lorenzo, che altrimenti non sarebbe nato; anche se poi. quel padre marinaio sparirà per sempre dalla sua vita e da quella della madre, emigrando forse in argentina all’età di quattro anni del bambino, di Lorenzo, per non tornare mai più. E insomma in quel sottomarino inabissato, “la materia oscura della predestinazione”. Tutto il romanzo è costruito sul filo misterioso e letterario della predestinazione.
La storia, le storie, che Vitali intreccia nell’Uomo della posta, lontanissime da quel prologo quasi magico, attorno a Lorenzo, il suo alter ego, pur se partono da una situazione statica, ripetitiva, – la quotidianità in Posta, gli incontri degli alcolisti anonimi, – hanno respiro, dialogano fra loro, in una Bagnoli (la sua Nofi, pensando a Rea) piccoloborghese-operaia, con la presenza intrusiva della fabbrica Italsider-Ilva… Lorenzo è un umile impiegato delle poste di Bagnoli, con un matrimonio fallito sulle spalle, disgustato del proprio lavoro, dai colleghi, da se stesso, sentimentale e cinico, superstizioso e paranoico, aspirante romanziere (sta scrivendo un romanzo). Insomma, è un personaggio complesso che viene fuori un po’ alla volta, in un’alternanza di passato e presente con frequenti incursioni oniriche. Da bambino, viene allevato da una madre povera che si arrabatta con lavori umili per sbarcare il lunario, una madre che aveva un odore sempre addosso di sudore e varechina e profumi a buon mercato… Gli odori in questo romanzo hanno un ruolo di primo piano, i personaggi e gli ambienti vengono spesso definiti per l’odore che hanno, odori di solito sgradevoli, grevi, odore di “povertà”: – per una scrittura sensoriale – incentrata sul “corpo”, mi pare, in modo anche più marcato che in passato, cruda (mai edulcorata). E l’espediente dei due bambini morti mi sembra assai felice – il bimbo con cui il protagonista dialoga al cimitero, e Cristiano, il “figlio perduto”, con cui dialoga al telefono Maria, la sua Maria, conosciuta agli Alcolisti anonimi, Maria con cui vive una “tardiva” storia d’amore – “femmina da teatro greco”, “incarnazione tagliente della città verticale che precipita al mare” …
Riesce così a rappresentare i vivi e i morti insieme, in unico impasto, per dir così, – con uno stile di impronta partenopea (si sente l’influsso della Ortese, ma anche di Compagnone, Pugliese, Rea ecc.) – ma sono innumerevoli gli echi e rimandi letterari, filmici, culturali anche fuori dall’ambito napoletano in tutto il racconto: ne dico qualcuno: da Marquez a Metropolis di Fritz Lang, da von Trier a Bukowski, da Conrad a Balthus, ecc. sempre necessari alla macchina narrativa. L’uomo della posta narra in fondo l’incontro di due anime profondamente segnate dalla vita – che riescono se non a risorgere, almeno a vibrare insieme per qualche tempo, intrecciando le loro esistenze anonime e tribolate, nel caos della metropoli napoletana che ti risucchia, “da cui non si può restare immuni.”
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.