Giuliano Capecelatro
Il mondo dalla tribuna

Che noia, il calcio!

Nel calcio trionfano i numeri sulla qualità, sul talento. Ma non è il primato della scienza: è la vittoria della noia (come diceva Gigi Riva). Storia di una giornata allo stadio, patria del capitalismo della sorveglianza

Mio genero, che scherzo da prete! Quel biglietto. Dono di Natale. Una beffa maligna, covata da anni. Con il sottofondo irridente dell’inascoltabile inno del Napoli, squadra chiamata a rappresentare nel calcio la mia città natale: ogni volta, appena arrivo a casa sua, il gaglioffo fa partire le note. Ci sarebbe da prenderlo a cazzotti, non fosse che è quattro volte più grosso di me, ha un quarto di secolo in meno e, particolare non irrilevante, è stato a suo tempo vicecampione mondiale di kickboxing. Meglio ingoiare il rospo.

Roma-Napoli. All’Olimpico. Non ci mettevo piede da decenni; trent’anni forse. L’antica passione si è spenta. Gigi Riva definiva il calcio d’oggi noioso. Parlava dall’interno, da qualificatissimo addetto ai lavori. Noia, senz’altro. Ma dall’esterno tenderei a vedere qualcosa di più. La crescita abnorme di un apparato che è germogliato e continua a svilupparsi intorno al gioco. Una superfetazione inquietante; orwelliana, oserei dire.

Roma-Napoli. In fondo l’idea mi ringalluzzisce. Chissà che dalle ceneri non si sprigioni la scintilla che resuscita antichi entusiasmi. E, nella notte che incombe, mi avventuro baldanzoso per le balze del K2 – così i romani chiamano l’erta via De Amicis, che congiunge Monte Mario al Foro italico. Tribuna Monte Mario (laterale) recita il biglietto. Be’, almeno starò comodo, con una vista ampia ed equilibrata sul campo.

I decenni non trascorrono invano. Il percorso, che un tempo coprivo in una manciata di minuti, si è considerevolmente allungato. Raggiungere l’entrata comporta adesso il periplo di mezzo Foro italico. Dovunque uomini e mezzi delle forze dell’ordine. Mi soppesano con gli sguardi; ma non devo avere l’allure dell’ultrà; qualcuno, sotto la curva Nord, mi chiede distratto dove sono diretto. Una sorveglianza capillare. In nome, va da sé, della sicurezza. La partita è classificata a rischio per l’effervescenza delle due tifoserie, che talora tracima nella criminalità.

Raggiungo la prima tappa, il monumento a Colui che ha fatto anche cose buone; quali? Curiosità tuttora inevasa. Piuttosto, ancora una volta mi colpisce che per la scelta celebrativa si fosse adottata una composizione smaccatamente fallica. Capirli, ‘sti fascisti, oltre a qualche omicidio qua e là, cos’avevano in testa. Bisognerà rileggersi Gadda. E magari una veloce ripassata di Freud, qualcosina sulle idee ossessive.

Ci siamo. La pattuglia si raduna: sei romanisti assatanati, un giovinetto neutrale perché torinese e torinista, un solo napoletano, compassato. In largo anticipo. Sul biglietto è consigliato di arrivare un’ora e mezza prima, per evitare code. Strano, ricordavo che alla Monte Mario si entrava senza problemi mentre i giocatori stavano per dare il calcio d’avvio. La ragione c’è. Massicce e impervie cancellate circondano lo stadio. La coda non manca, del tutto anarchica fin quando, a mo’ d’imbuto, non si raggiunge il primo varco. Non basta il biglietto, devi accompagnarlo con un documento d’identità; che nessuno esamina davvero, basta agitarlo in aria.

Altro varco, altra coda. È il turno di un simulacro di perquisizione. Prego i miei numi tutelari perché i severi custodi non scambino i due panini tostati, amorosamente incartati, per armi improprie. Come si dice da queste parti: nun je ne po’ frega’ de meno.

Siamo dentro. Non proprio; c’è ancora mezzo chilometro, e l’ultimo tratto è una scalinata che taglia le gambe. Il tempo è galantuomo, per universale consenso; ma qui ha fatto un tantino la carogna e ha reso epico il raggiungimento della poltroncina. La traversata mi fa tornare in mente la prima e unica volta che entrai nel penitenziario di Rebibbia. Da cronista, sia chiaro. Un’aura carceraria avvolge l’impresa. Sorvegliare e punire. Ah, il compianto Michel Foucault! Si guardava intorno e scovava le macchinazioni del Potere. Però, via, restiamo con i piedi per terra: qui non c’è ombra del suo Panopticon. Credo.

Tribuna Monte Mario. Laterale, d’accordo. Ma la memoria mi dice che quel conciso sedile di plastica è ubicato nel settore che un tempo veniva pudicamente denominato Distinti, spalla a spalla con la curva. In termini geometrici, decisamente dietro la porta. I ricordi non sono confortanti; da lì sarà arduo, ad onta dell’antica denominazione, distinguere qualcosa oltre la metà campo. Comincio a ritenere esosi i centocinque (105) euro sborsati dal mio prodigo genero. In testa si riformulano in un amen tutte le giaculatorie ripetute da anni contro il gioco più bello del mondo.

Bello? La noia, Riva dixit. La palla compie brevi, spesso brevissime traiettorie, avanza circospetta; non di rado, quando è in vista della porta avversaria (con l’urlo già sulla rampa nella gola tifosa), ritorna sui suoi (loro, dei pedatori) passi fino al portiere. Che si guarda bene da scaraventarla il più lontano possibile, ma con timido tocco la appoggia al compagno meno sorvegliato. E si ricomincia; da una parte e dall’altra. Un flipper con le pile scariche; un videogioco a basso voltaggio. Il quadro del calcio moderno. Guai a non seguirne i dettami.

Questo copione, imbozzolato nella noia, si recita sotto i nostri occhi. Causa la distanza, non capisco tutto quello che accade in campo, ma vengo informato quasi in tempo reale dai miei compagni, che nel frattempo hanno potuto ricostruire l’accaduto. All’occorrenza, posso buttare un occhio sui tabelloni in cima alle curve, dove scorrono le immagini della partita. Il Napoli del terzo scudetto è una barca semiaffondata. La Roma appare un po’ meno derelitta; infatti, come scriverebbe un bravo cronista sportivo, il campo le darà ragione. E scatenerà la maramalderia di mio genero, svizzerone dell’Emmental fasciato di giallorosso, lesto a sfruculiarmi sulle note dell’inno scritto da Antonello Venditti (e qui non c’è partita: è proprio un bel brano musicale).

All’esperienza diretta si accoda la teorèsi. Delibato il non esaltante spettacolo, torno a chiedermi cosa abbia pressoché azzerato in me l’interesse per il pallone. Il che significa andare alla radice della noia, lucidamente enucleata dal fenomeno e tradotta in massima lapidaria da Gigi Riva, uno dei grandi del pantheon calcistico. Credo, ipotizzo, che da diversi anni il calcio si sia inginocchiato al paradigma scientista dilagante, assumendolo come bussola.

Precisiamo. La scienza è una faccenda seria, talora drammaticamente seria. È impegno intellettuale, ricerca inesausta, elaborazione, confronto e scontro di idee, sperimentazione, verifica o falsificabilità, consapevolezza che non ci sarà mai un punto d’arrivo, la chimerica verità. Il paradigma scientista non ne è che la scimmiottatura, sconcia parodia, un giochino di società che si appropria di qualche formula e la marmorizza in una parola d’ordine, ripetuta con sicumera.

Tendenza che ha allignato in un mondo del calcio che, in virtù del fatturato, si prende sempre più sul serio, come il naso di Gogol. Tutto viene tradotto in cifre, garanzia assoluta di scientificità. Ogni incontro è un laboratorio in cui si raccolgono religiosamente dati. Media specializzati riportano ossequiosamente tutto il misurabile: possesso palla, chilometri percorsi, velocità, tiri effettuati in porta, tiri fuori bersaglio, numero di falli (intesi come scorrettezze ai danni di avversari).

Alcuni giocatori indossano vezzosi reggiseni in cui nascondono apparecchi che travasano in cifre le loro prestazioni. Si accendono dotti dibattiti sul 3-4-3 e sul 3-5-1-1, che riassumono le tattiche da adottare. Il dogma dei dogmi è la Costruzione dal basso, che ha come postulato irrinunciabile la requisizione della palla, in modo da sottrarla il più a lungo possibile agli avversari. Nella mente degli scienziati pallonari trionfa un assioma: più possesso, maggiori possibilità di vittoria, o almeno di non perdita.

In un’era in cui l’algoritmo è legge, ogni evento viene sminuzzato e ridotto a numeri. Il numero più alto prevale.  La quantità deborda e fa premio sulla qualità. Anche in termini di fattore umano. Le dimensioni dei calciatori, adeguatamente palestrati, si ampliano. Un giornale, qualche mese fa, segnalava come indubbio handicap che la squadra del Napoli era la più bassa della serie A; se ne deduce che, nello scorso campionato, deve aver conquistato lo scudetto perché gli altri si erano lasciati vincere dalla compassione per colleghi meno dotati.

L’accento sulla mole, sui requisiti fisici, livella le abilità.  I calciatori possiedono più o meno tutti uno stesso bagaglio tecnico, acquisito nelle scuole, per eseguire le stesse funzioni. I fuoriclasse, quegli artisti che con un colpo di genio risolvono una partita, sono a rischio estinzione. Risultato: guardare una gara, dal vivo o alla televisione, è una tortura, a meno che non si sia accecati dal tifo.

La Roma segna. Una, due reti. Al boato dello stadio, ogni volta l’altoparlante fa seguire stentoreo il nome del marcatore. All’unisono ripreso e reiterato da migliaia di voci. Giocoso rito collettivo, evocazione inconscia dello spirito buono che ha portato la fertilità. E che, si spera, propizi altre stagioni felici. Mio genero è contento. Io sono contento per lui, e ne approfitto: sbircio le immagini sul tabellone per raccapezzarmi, poi mi faccio raccontare come si sono svolti i fatti davanti alla porta del Napoli, distante circa duecento metri.

I sostenitori del Napoli sono un ridotto manipolo. Forse un migliaio, ingabbiati nel settore tra la tribuna Monte Mario e la Curva Nord. Piuttosto mogi, in controtendenza con l’ampia letteratura nera che li riguarda. Non hanno avuto occasioni per esultare, far esplodere petardi, putipù, scetavajasse, dare conferma della proverbialmente vulcanica anima partenopea. Le luci si abbassano. Da prima della fine. L’altoparlante li istruisce su come uscire, imboccare un percorso obbligato fino ai pullman che li riporteranno a casa.

Abbandoniamo lo stadio-fortilizio. Le mie riserve non sono scemate, anzi. Il calcio, ma un po’ tutti gli sport di grande seguito – negli Usa saranno piuttosto il baseball, il basket –, costituisce un ganglio importante nel cosiddetto capitalismo della sorveglianza. I nostri comportamenti sono una nuova miniera. Da cui si estraggono le pepite dei dati che, inseriti nella catena di montaggio dell’intelligenza artificiale, permettono di prevedere e indirizzare atteggiamenti e scelte.

Lo descrive la studiosa americana Soshana Zuboff, che certifica l’esistenza di un florido mercato dei comportamenti futuri. Quei dati “vengono rivenduti – scrive la giornalista statunitense Rana Foroohar – in modo da ridurre i costi e avere margini di profitto più alti” (Internazionale, 12/18 gennaio 2024). Toh, chi si rivede! Il Profitto, cuore pulsante del capitalismo quale che sia la forma assunta, spiritello malizioso e soprattutto maligno.

Il capitalismo tout court necessita di sudditi docili e prevedibili. Dunque li tiene incessantemente d’occhio. E si ingegna a riportarli il più possibile nella dimensione ludica dell’adolescenza. Con lo sport in un ruolo strategico: ha raggiunto dimensioni ipertrofiche, occupa sempre più spazio, in connubio con il gossip, nel circuito inquinato dei media. Se un atleta vince un torneo, stabilisce un record, compie una qualsiasi impresa, si scatena una valanga di dettagliatissime informazioni da compilarci un’enciclopedia.

Sollecito, per i suoi enfant gâté, i prediletti bambinoni a vita, il capitalismo della sorveglianza, del controllo massiccio e ubiquo, escogita e appronta allettanti paradisi artificiali. La Superlega del calcio, metacampionato per club ultraricchi, è dietro l’angolo. La petropecunia non olet; e incentiva una crescente ondata migratoria di calciatori, specchietti per le allodole della passione sportiva, verso l’Eldorado arabo. Pazienza se in campo si vedono scene da Stanlio ed Ollio. Come per la Supercoppa, si prevedono partite del campionato italiano da disputare a Riyad, o magari in Qatar; si fa  un pensierino all’Asia. L’industria del divertimento non ha frontiere. Lucignolo e Pinocchio ci sguazzerebbero.

Un merito bisogna riconoscerlo al capitalismo; se c’è da fare soldi, senza sottilizzare troppo sui mezzi, sprigiona una fantasia sconfinata. Gli architetti del Rinascimento arabo, così qualche callido politico nostrano ha etichettato la politica di sviluppo dell’Arabia saudita, hanno messo in cantiere, a circa quaranta chilometri da Riyad, Qiddiya. Una Disneyland extralarge: 334 chilometri quadrati, un mastodonte rispetto alla progenitrice, nata nei dintorni di Los Angeles nel 1955, e tre volte più grande del Disney world installato a Orlando nel 1971.

L’Eden del tempo libero. Svago a tutta birra. Parchi acquatici, bacini per gare di vela, centri commerciali, pista da sci, circuito di Formula 1, ippodromo, stadi per concerti e per il calcio, palazzetti per ciclismo, pugilato, wrestling, le montagne russe più grandi del mondo e via di questo passo. Nell’ombra, il Demone tentatore suderà sette camicie per calcolare i sostanziosi ricavi. Così va il mondo. Meglio, così andava nel ventunesimo secolo.

Esaurita la sagra dello sfottò, genero e suocero, l’orso di Berna e il cavallo rampante (sui campi di calcio declassato a ciuccio) di Partenope, potenze totemiche, brindano e si consolano, secondo un’antica tradizione (chi ne ha memoria? “Se la squadra del vostro cuore ha vinto…”), con una generosa bevuta. Roma-Napoli, niente più che una noiosa parentesi.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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