A proposito di “Parole per guarire”
Poesia come diaspora
La nuova raccolta poetica di Stefania Rabuffetti si legge con commozione: dai versi emerge continuamente una gran fame di vivere
Poesia come diaspora è la formula che credo si possa proporre a questo punto come enunciazione critica che riassuma, della poesia contemporanea, vorrei dire attuale e corrente, la varietà e diversità delle voci, la loro pluralità, parlando di poeti e poete, ma ancor più la molteplicità delle intonazioni e delle forme di canto, dei toni e dei ritmi. La parola diaspora si fa opportuna, calzante, e ricorrente nel momento in cui si rifletta su un fatto: la sorgente poetica per quanto idealmente comune risulta sparpagliata e i suoi rivoli corrono nel mondo poco dopo aver lasciato la fonte come se avessero dimenticato il punto di provenienza.
In apparenza nulla lega tra loro le opere, per esempio le tre o quattro che vorrei considerare qui in altrettanti brevi saggi, se non la comune appartenenza originaria che è in parte costituita anche da una intera tradizione di riferimento, ma poi le strade aperte col loro sviluppo da ciascuna esperienza poetica tracciano vere e proprie linee di fuga.
Parole per guarire di Stefania Rabuffetti (Castelvecchi) è la prima delle raccolte di cui nell’ordine occuparsi. Non inganni la psico-aura che ammanta il sintagma del titolo, né il cerchio di fuoco che illustra la copertina. Di primo acchito viene in mente la funzione terapeutica della poesia e di qui della letteratura. Ma è solo la prima impressione. È come se la confezione del libro liofilizzasse la potente esperienza dell’anima racchiusa in esso nel suo esito salvifico prima ancora che il percorso sia intrapreso e ognuno di noi lettori grazie al viatico offerto dal testo lo attraversi e compia per intero il tragitto. Solo dopo, solo allora, il risultato c’è, e assicuro che vale la pena passarci dentro.
È pur vero che, per diretta ammissione dell’autrice, la poesia di questo libro è stata un’ancora di salvezza.
L’opera dà conto di un duello della voce poetante con sé stessa. Della poesia con la parola. Dell’io vivo con il male di vivere: solo percorrendo l’intera parabola poetico-esistenziale si riesce a venirne fuori, a superare le tremende ristrettezze della cruna d’ago in cui il destino personale ha rischiato di incagliarsi e dissolversi.
Colpiscono due scelte, rischiose, compiute qui dall’autrice: da un lato citare senza preamboli, a viso aperto, alcuni topoi provenienti da tutta la tradizione, soprattutto quella otto-novecentesca, della poesia; dall’altro usare come palinsesto la struttura in tre parti ricalcando senza esitazione le tre cantiche dantesche della Commedia. Può sembrare una captatio smaccata, o una non ben calcolata ingenuità. Ma come sempre per parlare delle cose e farlo con cognizione di causa bisogna attraversarle, le cose, conoscerle, percorrerle – se si tratta di poesia, in specie.
E così, seguendo l’opera nel suo svolgersi, anzi, meglio, lasciandosi condurre per mano dalla voce delicata ma decisa dell’io poetante, scopriamo che lo sforzo compiuto è stato di attualizzare il viaggio metafisico – allegorico – di Dante nella Commedia per rivelarne il lato fisico, tangibile, realmente tormentoso. Inoltre questa parola che salva, questa poesia, fa il grande sforzo di dimensionare il male di vivere e neutralizzarlo, come? Lasciandolo proliferare solo sulla pagina, trasferendolo cioè nell’alveo letterario, e scrollandolo dal sé del poeta. In una sorta di self-shaping, qui la poesia si autodetermina e trova il proprio abito capace di farla risuonare.
Il male di vivere che senza tanti preamboli l’autrice scomoda è un malessere esistenziale tanto profondo da esigere che si esca dal silenzio che come un sudario blinda la sofferenza piombandola nel/la sofferente. Del resto colpisce subito, fin dalle prime pagine, il richiamo a versi di Sylvia Plath e anche l’accoglimento di quel vacillare che non solo sta per oscillare ma anche per sentire consono e registra l’ossimoro paradossale che governa le nostre vite.
È poi molto interessante una serie di contrappunti intertestuali che richiamano e inseguono la continua lotta tra il chiudersi e l’aprirsi che è proprio la quintessenza del duello interiore che abita l’io poetante in una tensione continua tra resistenza e disarmo. Dunque in ciò trova conferma, come in una ragione non esterna ma decisamente interna dunque più ardua da giustificare o argomentare ma certamente più motivatrice al poetare, la tessitura ossimorica della scrittura, e il suo esito naturale, il paradosso, quell’ intreccio di wit & conceit che con maggior freddezza e controllo animava i versi dei metafisici inglesi.
Non a caso ogni tanto l’io poetante fa il punto, e analizza o forse interroga la scrittura poetica, cioè pone la questione cruciale: cos’è la poesia, come sorge e come tace.
Questo ci aiuta a mettere meglio a fuoco tutti quei fili nella tessitura di questa scrittura che richiamano luoghi noti della poesia – non si tratta come già si accennava di una ripetitività cullante ma della convoca-zione di tutto ciò che descriva una discesa agli inferi senza risparmio. L’effetto si fa via via sempre più avvolgente e confortante – non stritola ma sostiene e accompagna.
È interessante il discorso sull’anima. La nascita umana, parrebbe, poiché è nell’incarnazione, comporta dunque la morte dell’anima? Il bilancio risultante suona come minimo ambiguo: resta solo il malessere esistenziale che si sconta vivendo – Ungaretti al contrario, parrebbe.
Altro elemento ricorrente è il liquido amniotico, motivo femminile, materno, dopotutto woolfiano.
Perché il regolatore di questa poesia è un gioco di luce e ombra, uno scambio di posto che varrebbe la pena preservare, poiché in questa poesia la piena luce come l’ombra profonda sono entrambi setting senza fuga.
L’idea di fondo è che l’anima incarnata nel corpo sia ferita e limitata nella sua originaria immortalità. Cioè, è una combattente nata priva di armi o una combattente destinata a nascere senza armi? Tutto sta in un piccolo artificio che consiste nel lasciar trascorrere il senso a seconda della pausa senza punteggiatura: è un minuscolo accenno questo, nella parte più sulfurea del libro, a uno spirito più grande che aleggia e con cui c’è speranza che l’io poetante riesca a connettersi, ed è anche una traccia forse inconsapevole di Rousseau e anche del trascendentalismo di certi poeti americani.
Torniamo sulla lingua, sul linguaggio: procedere per sintagmi che alludono a luoghi poetici sentiti prende sempre più quota come ripetizioni di possibili luoghi comuni come rivelazioni di significati nuovi, aggiornati. Un linguaggio abile e agile che nella sua apparente orecchiabilità diverte dalla propria storicizzazione.
Tutto va ricondotto alla corporalità che assume significato. A una percezione dell’io sempre più fisica. Cioè si perviene a una specie di misticismo realistico o di realismo mistico. Questa poesia acquista una sua forza argomentativa – dà corpo alle ombre plasmandole come corpi di linguaggio che formulano corpi del sentire e di pensiero. Questo riformulare sintagmi noti con un senso nuovo è del resto, in una poesia come questa che cerca vie d’uscita, nuova linfa di vita, ricarica e riscatto, proprio il segno di una indomita vitalità, e pure di una irredimibile ribellione. L’io reclama centralità, attenzione, cura, affetto, dedizione, e vuole avere voce in capitolo: è questo ad aprire un varco alla speranza nell’orizzonte fino a un attimo prima del tutto chiuso.
A questo proposito è significativo il rapporto con l’errore, beckettianamente ripetuto con accanimento fino a farne un rituale, e lo scopo è semplice: vincere il limite, superare la frontiera, sconfinare nella vita.
Questo libro si legge anche con commozione, ciò che emerge è proprio una gran fame di vivere. E tanto fa, l’io che ha fame di vita, che riesce ad aprirsi a un tu – è una auto-oggettivazione, ma anche un lanciare le braccia verso l’altro nell’intento di connettersi. Nell’esistenza come già nella letteratura. Perché diventa definitivamente evidente che le fonti offrono le perifrasi e le metafore, cioè l’apparato linguistico-simbolico – tuttavia non rarefatto, non sottratto a un senso realistico, fisico, corporale, però sono funzioni espressive non solo riusate ma discusse nell’uso. Viene quasi voglia qui di coniare la formula sincretismo compositivo.
La lunga lotta senza esclusione di colpi produce il suo risultato: la luce, la voce, la grazia, e la leggerezza.
Elemento necessario di questo poetare si fa allora l’iterazione, commovente nel suo estenuato risuonare. Pertanto chiuderei con un pugno di versi a metà strada, direi, tra Edgar Lee Masters e Luigi Malerba:
DATA PREFISSATA: Il mio epitaffio / lo ha scritto il destino // è stato inciso / su una lapide di marmo / / dov’è scolpita anche la data / – fissata dalla speranza / della mia rinascita.
La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo.