Cronache infedeli
La vendetta del vampiro
Dopo cinque consultazioni in quattro anni, il Cile non riesce a cancellare la firma di Pinochet dalla costituzione. È la sconfitta della politica, con la destra e la sinistra arroccati su questioni ideologiche
Augusto Josè Ramòn Pinochet non è mai morto. Trasformato in vampiro, vive da duecentocinquanta anni in una villa in rovina affondata nelle gelide steppe della Terra del fuoco. A volte – spesso – le opere letterarie, i film, i poemi sono più reali del reale: svelano il presente e vaticinano il futuro meglio di mille libri di storia. Così è per “El Conde”, l’ultima opera del regista cileno Pablo Larràin, una favola nera che racconta la seconda vita di Pinochet, proprio nei giorni in cui sui cieli del Cile torna a svolazzare come un pipistrello la nera immagine dell’antico dittatore.
I cileni, milioni di cileni, non sono infatti riusciti a cancellare la firma di Pinochet dalla Costituzione – la legge fondamentale – che da decenni accompagna il tragitto democratico e che guiderà nel prossimo futuro la vita politica e sociale del paese latinoamericano. Negli ultimi quattro anni il popolo è stato chiamato alle urne cinque volte per eleggere le Assemblee costituenti e per votare finalmente una nuova Costituzione, ma per cinque volte l’esperimento è tristemente fallito.
Nel 2019, sull’onda delle grandi proteste di piazza contro la destra e con la vittoria elettorale alle presidenziali, la coalizione progressista si illuse di poter scrivere e far approvare la “sua” costituzione: un documento elefantiaco di decine e decine di articoli che conteneva tutti i valori – e tutte le idiosincrasie – della sinistra latinoamericana: dai diritti degli animali al riconoscimento della piena sovranità dei popoli originari, dal “diritto alla casa” al diritto all’aria “non inquinata”, all’accesso garantito a internet all’assistenza per tutti “dalla nascita fino alla morte”. Piazze piene, urne vuote, ahimé: al momento del voto il popolo sovrano bocciò sonoramente il generoso e ingenuo tentativo di risolvere per via costituzionale tutti i problemi, le storture e le ingiustizie di una matura società capitalistica.
Il resto è cronaca di ieri: negli ultimi due anni in Cile il vento della politica è cambiato e i vecchi conservatori di nuovo in sella – corroborati da nuovissime formazioni del populismo reazionario – si sono illusi di poter far saltare il banco, accogliendo nel progetto di una nuova Costituzione un compendio di tutti i valori e le idiosincrasie della destra del terzo millennio. Un mix di prescrizioni e divieti tristemente anacronistici: dal ruolo subordinato della donna ai “diritti” del feto, dalla feroce limitazione dell’aborto alla libertà assoluta di impresa e di arricchimento, dalla privatizzazione radicale di interi settori della società, fino al dovere imposto a ogni cileno di “onorare la nazione e i suoi simboli”: la bandiera, l’inno patriottico, e anche ridicoli sport nazionali come il rodeo.
Pochi giorni fa anche questa proposta di Costituzione è stata affossata dai cittadini, con il 55 per cento dei No. Dopo questo ennesimo fallimento, oggi nessuno ha il coraggio di esultare. “Si trattava di scegliere tra il male e il peggio”, confessa l’ex presidente socialista Michelle Bachelet. Le fa eco il leader della destra, Josè Antonio Kast, che sarà il candidato alle presidenziali del 2025: “Non abbiamo nulla da festeggiare, né noi né la sinistra…”
Finalmente la nuda verità: il Cile ha fallito, e questi sono giorni tristi per il Paese che intendeva togliere il marchio infamante della dittatura dalla sua Carta fondamentale. Nessuno, a sinistra come a destra, ha saputo mostrarsi lungimirante, affermando con forza che la Costituzione deve essere di tutti i cittadini e non di una sola parte. Come a Madrid, per secoli, si sono scontrate le “due Spagne”, così oggi a Santiago si scontrano i “due Cile”, e questo scontro – come avvertiva Antonio Machado – “è destinato a gelarti il cuore”.
Il Paese è stanco, avvertono i pochi saggi che restano fuori dalla mischia. Nelle università gli studiosi parlano oggi di “fatica costituzionale”, e l’inviato del New York Times a Santiago scrive di un “risveglio amaro in un processo che fu acclamato come modello di partecipazione popolare e che si è trasformato invece in un chiaro esempio delle difficoltà che attraversano le democrazie, specialmente nell’era di internet”.
La grande responsabilità dei partiti di destra e di sinistra – di tutto l’arco politico cileno – è quella di aver sfiancato per anni la società e il paese reale in un vano duello contro i mulini a vento. Quella che oggi infatti trionfa contro gli assalti convergenti della destra e della sinistra non è più da tempo la Ley Fundamental che fu scritta “sulla pietra” dal generale Pinochet e dai suoi scagnozzi nel lontano 1980, ma una Carta che negli ultimi trenta anni è stata emendata ben 70 volte, e che nel 2005 il presidente socialista Ricardo Lagos “corresse” radicalmente con 58 riforme fondamentali.
Dunque il trofeo più ambito dell’ultima, confusa fase politica cilena sarebbe stato più la Costituzione di Ricardo Lagos che quella di Augusto Pinochet. Ma i simboli sono duri a morire, e attorno a questo simbolo vuoto – la firma del dittatore sulla Carta – si sono scontrati negli ultimi quattro anni senza alcun risultato i Montecchi e i Capuleti della moderna e inconcludente – ancorché democratica – politica cilena.
Oggi è il giovane presidente di sinistra a dichiarare nulla la partita, con una sorta di mesto sollievo. Dice Gabriel Boric: “Voglio essere chiaro: durante il mio mandato si chiude il processo costituzionale. In questi anni il Paese si è polarizzato e diviso, ed è risultata vana la speranza di scrivere una nuova costituzione che potesse rappresentare l’intera nazione”. Dunque, la politica alza bandiera bianca. Lo dice ancora più chiaramente Michelle Bachelet: “Era una occasione perché la gente tornasse a credere nella politica e nei politici. Non ci siamo riusciti, abbiamo fallito, e nessuno tenterà di azzardare un terzo tempo in questo processo”.
Il giovane presidente di sinistra – nel momento più difficile della sua traiettoria politica – cerca di rimontare la china: “Lo dico con grande convinzione, senza esultanza né arroganza. Palla in tribuna, umiltà e lavoro, molto lavoro…”. È vero: il Cile ha un problema, il Cile ha mille problemi. L’irruzione di inedite forme di una violenza urbana che colpisce soprattutto i più poveri, una economia che segna il passo da dieci anni, le falle del settore educativo, un sistema sanitario privatizzato e sull’orlo del collasso, un terribile deficit abitativo. Tutte criticità aggravate negli ultimi quattro anni, con i partiti impegnati nella guerra ideologica intorno al progetto di una nuova costituzione. Gli analisti che oggi si interrogano sul “sistema Cile” ci consegnano un referto segnato dalla polarizzazione politica, dalla disinformazione e dalla radicalizzazione ideologica. Ancora più preoccupanti, secondo il politologo Roberto Izikson, sono le cosiddette variabili trasversali: “Il disinteresse, la disconnessione sentimentale, la stanchezza, il senso di perdita di tempo, la sfiducia nei confronti della classe politica in generale”.
Occorre dunque ricominciare da un panorama di rovine. E i politici cileni di destra e di sinistra avranno di che riflettere dalla lezione della favola nera di Pablo Larràin. Sui foschi spazi della Terra del fuoco battuta dai venti, corre infatti il grido di dolore del dittatore-vampiro, stanco di bere sangue e contemplare una solitaria eternità: “Fatemi morire, non voglio vivere altri duecentocinquanta anni!”. La vana implorazione appare un atto di accusa contro l’inetta classe politica cilena, che per orgoglio ignoranza e settarismo ha lasciato il nome di Augusto Pinochet inciso nella pietra della legge fondamentale del Cile democratico.