Le celebrazioni a Trieste
La solitudine di Svevo
I cent'anni dalla pubblicazione de "La coscienza di Zeno" rappresentano un'occasione importante per tornare a parlare di Italo Svevo, lo scrittore che più di altri ha incarnato il senso del Novecento
Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz, è una di quelle rare figure di scrittore che oltre a provenire da una famiglia di commercianti, svolse per gran parte della sua vita l’attività di contabile nella fabbrica di vernici marine (la celebre Veneziani, ancora oggi attiva) di proprietà della moglie. Nato a Trieste il 19 dicembre 1861, fu mandato a dodici anni nel collegio di Segnitz in Baviera per perfezionarsi nella lingua tedesca, ritenuta indispensabile per chi volesse dedicarsi al commercio. Si iscrisse poi a Trieste all’istituto Revoltella, ma l’azienda del padre fallì e fu quindi costretto a impiegarsi in una banca dove lavorò a lungo.
Il suo primo romanzo Una vita (1862), ricco di spunti autobiografici è ambientato appunto in gran parte in una banca. Il protagonista, Alfonso Nitti, incarna la crisi della volontà e della coscienza dinanzi alla brutalità delle scelte imposte dalla vita. È perciò stato considerato “il primo uomo senza qualità” della nostra letteratura. Accanto alla sua figura gravitano tutta una serie di altri motivi di varia natura, dal mondo descritto minuziosamente dell’organizzazione della banca Maller dominato da ipocrisie, ricatti e compromessi a quello della società triestina di fine Ottocento, dominata da una classe dirigente spregiudicata e prevaricatrice, affiancata da una piccola e media borghesia dalla mentalità chiusa, un po’ angusta.
Trieste, al tempo di Svevo, era una città cosmopolita, moderna per la varietà delle sue classi sociali, fra le quali spiccava un ceto mercantile e finanziario intraprendente e smaliziato. Era tuttavia condizionata dall’aspirazione fortemente sentita dei suoi abitanti di unirsi all’Italia anche per la sua posizione marginale rispetto all’impero austro-ungarico. Dal punto di vista culturale e politico, esistevano numerose contraddizioni. Il romanticismo ottocentesco si rivelava sempre più inadeguato dinanzi alla nuova realtà storico-sociale e lo spirito mitteleuropeo dava segni evidenti di essere ormai giunto al tramonto. Tutto ciò influirà nell’opera di Italo Svevo, ebreo da parte materna e dominato come altri grandi scrittori quali Musil, Kafka, Proust, Rilke dal sentimento radicale di una sofferta solitudine storica. La sua condizione di vita approdò così verso un’esperienza di tipo individualistico esasperata senza tuttavia mai contrapporsi alla società in cui viveva e ai suoi valori, ma valutandola con ironia critica e consapevole. In questo, tuttavia, fu potenziato dalla sua attività di industriale, poiché essa gli aprì un mondo disincantato e concreto, e orizzonti nuovi per i numerosi viaggi intrapresi in vari Paesi europei per ragioni di lavoro.
Dopo il suo matrimonio fortemente desiderato con Livia Veneziani, nel 1896 accettò di entrare con incarichi direttivi nella ditta del suocero. Per evitare di pensare alla scrittura, passava le sue ore libere suonando il violino. Dopo l’insuccesso del suo secondo romanzo Senilità (1898) aveva scritto nel suo diario fra l’altro: «Io voglio soltanto attraverso queste pagine arrivare a capirmi meglio. Poi getterò per sempre la penna e voglio sapermi abituare a pensare nell’attitudine stessa dell’azione; in corsa fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire o per parare».
Tutta la sua biografia inesplicabilmente si raccoglie intorno alla sua fallita carriera di scrittore, caratterizzata da poche speranze e molte delusioni, rinunce e ritorni. La letteratura restò in definitiva la passione segreta della sua vita e sicuramente il mancato riconoscimento e il silenzio cui si obbligò per trent’anni, uniti alla certezza del proprio valore influirono sulla sua visione amara e negativa dell’esistenza.
Quando nel 1903 giunse a Trieste James Joyce per insegnare alla Berlitz School, Svevo si fece dare delle lezioni private d’inglese. Nacque così una sincera amicizia che influirà sul destino letterario di Italo Svevo, in quanto il geniale scrittore irlandese riconobbe immediatamente la grandezza dell’opera di questo autore in Italia ancora sconosciuto.
La sua attività di commerciante, cui si dedicò con scrupolo ed efficienza, non solo lo mise al riparo dalle difficoltà economiche della vita, evitandogli il rischio del professionismo letterario, ma fu determinante perché Svevo si costruì addosso il personaggio di Zeno Cosini, protagonista della Coscienza di Zeno (1923) di cui quest’anno ricorre il centenario della pubblicazione. In questo capolavoro scritto negli anni successivi alla prima guerra mondiale, l’esperienza dell’uomo e la riflessione dello scrittore si legano in modo mirabile, anche se il filo autobiografico fra lo scrittore e Zeno Cosini resta essenzialmente ideologico. Se i personaggi dei suoi primi romanzi sono inetti e infelici, Zeno è l’uomo che ha raggiunto la saggezza, che sa ridere di se stesso, anche se tra i lati del suo carattere rimane quello di «credersi grande di una grandezza latente». Per lui la vita non è più ostile e vendicativa bensì originale e imprevedibile poiché ha saputo rendere la realtà intorno a sé complice delle sue manchevolezze e dei suoi errori.