Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Il cervo di Hamaguchi

Dopo il successo di "Drive my car", Hamaguchi Ryūsuke torna con un film ambientalista, silenzioso e confuso. “Il male non esiste” non riesce a replicare la meraviglia del film che vinse l'Oscar

Il male non esiste, il nuovo film di Hamaguchi Ryūsuke premiato a Venezia col Leone d’argento, è l’esatto opposto di Drive my car, il suo film che conquistò l’Oscar per il migliore film straniero. Spiego perché. Due anni fa, il regista giapponese firmò un inno alle parole e al loro potere – il cuore della pellicola era la messa in scena di Zio Vanja di Čechov, con gli attori di diverse nazionalità che recitavano nella loro lingua madre, compresa la lingua dei segni coreana. Il male non esiste, un manifesto dichiarato in difesa dell’ambiente minacciato dalla presenza umana, è invece un film sul silenzio, il silenzio della natura e di chi tenta di mantenerne gli equilibri sempre più precari. Purtroppo questa dichiarazione di intenti si traduce, più che in una narrazione carica di suggestioni come mi sarei aspettata, in un racconto irrisolto e confuso: tanto era limpido nella sua complessità e nei suoi diversi piani temporali Drive my car, quanto risulta a tratti incomprensibile questa pellicola apparentemente così lineare.

La storia è semplice: c’è un villaggio vicino a Tokyo immerso in foreste incontaminate e abitato da gente che rispetta le regole antiche di Madre Terra, e c’è un’azienda senza scrupoli che vuole costruire un campeggio di lusso per vip stressati anche a costo di compromettere l’equilibrio ecologico del luogo. Un uomo e la sua bambina, Takumi e Hana, vivono una quotidianità fatta di gesti elementari: lui, un po’ tuttofare un po’ boscaiolo, spacca metodicamente la legna per la stufa, lei conosce i nomi degli alberi e cammina da sola nel bosco senza paura. Il glamping comprometterà irrimediabilmente questo mondo arcaico che conosce l’acqua pura delle sorgenti e i percorsi che i cervi seguono per abbeverarsi.

In questa pellicola risuona certamente l’eco dell’opinione pubblica giapponese negli anni del dopo Fukushima, e se la resistenza dei residenti nei confronti di un’operazione speculativa è il messaggio chiarissimo del regista, lo svolgimento che ha scelto è un impasto di lentezza e di non detto, come dimostra fin dall’inizio l’interminabile piano sequenza in cui la camera inquadra dal terreno le chiome degli alberi e il cielo. Visto in versione originale, il film esige in realtà i sottotitoli solo per la scena del confronto tra residenti e rappresentanti dell’azienda, per le altre se ne può fare a meno.

Nell’assenza di parole, a imporre la propria presenza è la colonna sonora della musicista Ishibashi Eriko (la stessa di Drive my car), direi la vera protagonista del film, e la cosa si spiega perché la pellicola è di fatto lo sviluppo dell’apparato visivo di una sua performance live. Una scelta certamente insolita da parte di Hamaguchi che secondo me pesa su tutto l’impianto del film.

Incomprensibile il finale: Hana si perde nel bosco e viene ritrovata dal padre di fronte a un grande cervo ferito da un colpo di fucile e quindi potenzialmente pericoloso. La bambina non ha paura, si avvicina all’animale e sembra annunciare il trionfo del rapporto innocente con la natura. Ma non è così, tutto diventa confuso, nel buio della notte c’è solo il respiro ansimante di Takumi che corre con Hana tra le braccia, forse ferita, forse morta. Il glamping si farà? Chissà, scorrono gli ideogrammi dei titoli di coda e lo spettatore ha la sensazione che manchi un pezzo.

Conosco a memoria Drive my car, credo di averlo visto sei o sette volte. Per Il male non esiste una visione può bastare.

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