Danilo Maestosi
A Roma, a Villa Lazzaroni

Il coraggio dell’arte

Una bella mostra pensata e curata da Roberto Gramiccia mette in relazione l'arte, la guerra e la fantasia: 35 artisti provano, con coraggio, a parlare ai bambini

La crociata dei bambini. È il titolo della mostra ideata e allestita da Roberto Gramiccia nella sala consiliare della VII circoscrizione a Villa Lazzaroni: 35 artisti, tra i più titolati della scena romana, invitati a misurarsi sul tema della guerra e della pace, reso sempre più incalzante dai massacri in corso in Ucraina e in Palestina. E più controverso dal modo fazioso da tifosi di calcio verso il quale chi controlla politica e informazione sta guidando e tentando di uniformare l’opinione di tutti.

Una sfida delicata e controcorrente che fa di questa piccola mostra di qualità occasione da non perdere.

Coraggioso Roberto Gramiccia ad averla lanciata, ma coraggio e impegno sociale sono bussole che hanno sempre orientato la sua biografia a tante facce: medico, collezionista e critico d’arte, saggista. Coraggiosa la VII circoscrizione che l’ha accolta: una scelta della maggioranza Pd che ha aperto promettenti spiragli nella la barriera di giudizi oscillanti, esitazioni, rimozioni dietro cui il partito si è trincerato. Coraggiosa la direzione nazionale dell’Anpi che la finanzia e sostiene la ricerca della pace come un nuovo fronte di resistenza.

E coraggiosi gli artisti che hanno aderito, accettando il rischio concreto di finire o restare ai margini del sistema mercificato dell’arte, compromettere possibilità di sostegno dalla destra in armi che governa il paese. E impone dazio e rivincite alla gestione della vita culturale.

Il coraggio è un sasso lanciato nello stagno dell’inerzia e della rassegnazione. Cerchi che generano altri cerchi, onde di emozioni che rimettono in moto la riflessione e il desiderio. Difficile poi accontentarsi. E invece bisogna anche qui. Perché poi lo slancio del municipio deve fare i conti con i fondi in cassa, e con i passi a fiato corto della burocrazia: mancano fondi e custodi, lo spazio della mostra è aperto col contagocce, due pomeriggi il mercoledì e il sabato dalle 16 alle 19, la domenica dalle 11 alle 13.

Troppo poco per garantire un pubblico adeguato ad una mostra che chiude il 21 gennaio, attraversando le feste natalizie, ostacolando la promozione del passaparola che il pienone e gli alti indici di gradimento la sera dell’inaugurazione ha messo in moto. Scarsa e confusa la segnaletica per raggiungere il traguardo, la sala consiliare è nascosta in fondo al parco e poco conosciuta dalle famiglie che frequentano Villa Lazzaroni.

Ma forse il rilievo più vistoso riguarda la costruzione di una mostra che sventola come richiamo la bandiera dei bambini, ma non ne prevede il coinvolgimento diretto, non li chiama ad esprimere la loro visione della guerra, della pace del mondo, a moltiplicare con i loro disegni le suggestioni dei lavori in mostra, non li invita a partecipare alla nascita di un’opera con il loro contributo e davanti ai loro occhi. Maghi anche loro come quegli artisti – non tutti – che firmano quadri e sculture lì dentro, e a volte, se non si lasciano incatenare dal calcolo narciso e dalle intenzioni inseguono un istinto di fantasia come un’eco d’infanzia, di vita ancora di fronte. Di fragilità da trasformare in forza personale e collettiva.

Mica facile in una società sempre più e malamente invecchiata e frantumata dal culto frenetico del proprio Io che ha scavato un fossato di disattenzione e sospetto con i bambini e gli adolescenti. Ne vive e ne ha ridotto almeno in Occidente la presenza, come specchio infedele delle proprie convinzioni e delle proprie paure. Soprattutto quelle che la guerra, le guerre, riaccendono con le stragi di piccoli innocenti che si trascinano appresso. Vittime collaterali che suscitano sdegno e commozione di poca durata. Metabolizzati e distribuiti con metri diversi, perché anche nella contabilità delle morti, non tutte quelle vite stroncate, quegli spettacoli di orrori e miserie hanno nell’universo destabilizzato della politica, dell’informazione e dei social lo stesso peso d’umanità, impongono le stesse risposte. Come accade nell’Ucraina invasa da Putin, nella Palestina messa a ferro e a fuoco dalle truppe di Israele dopo il brutale assalto terroristico dei miliziani di Hamas. In altri territori dilaniati da conflitti dimenticati. In questo inizio impaziente di Terzo Millennio che ha trasformato le lezioni della Storia in profezie di Cassandra.

Ce lo ricorda come un terreno da riconquistare e difendere proprio questa mostra. E prima ancora il titolo che ha preso in prestito, “La crociata dei bambini”.

È una poesia di Bertolt Brecht che non conoscevo. Come ignoravo la canzone di Vinicio Capossela, che l’ha ripresa con grande fedeltà e riportata in circolazione. Due scoperte di cui sono grato a Roberto Gramiccia, per la sua sensibilità controcorrente. Semplice comunque recuperarle, basta cercare la crociata dei bambini su You tube.

Su internet potrete recuperare anche precedenti che completano il quadro. Due storie simili in cui sembra che davvero che una folla di bambini si sia messa in marcia per raggiungere Gerusalemme e strapparla ai musulmani. Risalgono al Medioevo, tredicesimo secolo dC. Una si racconta in Germania, l’altra in Italia. A guidare la spedizione due ragazzi profeti, che dicevano di agire per conto di Dio e garantivano che le acque del mare si sarebbe aperte al loro passaggio. Due crociate guidate dall’odio e precipitate nel nulla, come tutti i miraggi degli dèi degli eserciti.

Nulla a che vedere con quella evocata dai versi di Brecht, sospesa anch’essa tra storia e leggenda e ambientata nella Polonia invasa dai nazisti. Una canzone struggente che segue passo dopo passo la marcia di un gruppo di bambini, i genitori uccisi o scomparsi, le case distrutte dai bombardamenti, altri evasi da qualche campo di sterminio, che fuggono in cerca di salvezza sotto la neve. Già. Ma dove? Nessuno di loro conosce la strada. Li guida una sola regola: il rispetto della vita e degli altri. Persino di quella di un cane. Il vincolo della pietà. Un viaggio verso il nulla della morte, che comunque bisogna onorare, per tutti. Dentro il cuore nero della guerra. Costellato di gesti che ti sprofondano nella malinconia, ma ti allargano il cuore.

Ecco, questo ci insegnano i bambini, che non sappiamo ascoltare. E gli artisti? Quei 35 che hanno accettato l’invito di Gramiccia, decisi ad andare incontro a questi bagliori di umanità, rubando segni e colori, tornando o cercando di farlo al mistero dell’infanzia, all’aura perduta del loro mestiere?

Ci sono riusciti in molti. Ognuno a suo modo, con il linguaggio che li distingue. Anche se non tutti hanno rispettato l’ancoraggio ai versi di Brecht, presentando lavori del passato, in cui però affioravano echi del tema proposto. Tra le libertà fraintese che la modernità ha consegnato a chi pratica l’arte di tradizione c’è anche, a mio avviso, un’anarchica ribellione al confronto con le attese di un committente che smentisce quel richiamo alla tradizione, ai capolavori e alle invenzioni che lungo questa strada ha prodotto.

Ma è un rilievo di principio che non intacca la qualità davvero alta dei lavori in esposizione. E non impedisce di stilare, passando da un campo all’altro, una classifica di gradimento ed efficacia dei messaggi contro gli orrori della guerra, ogni guerra, e l’ottuso conformismo con cui la maggioranza di mezzi di comunicazione ne valuta gli effetti. Una graduatoria che ho provato a tracciare liberandomi degli impacci dell’età adulta, tentando di abitare quei quadri come visioni che scorrono davanti a quel piccolo popolo sbandato e dolente di anime in fuga, cantato da Brecht e Capossela. Domande, paure, avvertimenti che non indicano magari la strada da prendere, ma la direzione sbagliata verso cui i signori e i paladini della guerra ci stanno guidando.

Peggio che smarrire il cammino trasformarsi in quel branco di cani selvaggi e latranti, pronti ad azzannare chiunque per paura e per fame, che Ennio Calabria (nella foto accanto al titolo) ha dipinto e visto arrivare cinque anni fa. Ignorare e non dare sepoltura a quel Cristo in croce, in cui Alessandra Giovannoni ha effigiato il destino di ogni vittima civile, piccola o grande, che la logica delle armi inchioda come danno collaterale e in cui ogni vero cristiano dovrebbe riconoscersi. Spiare con raccapriccio la scacchiera di pedine rovesciate e relitti che Valeria Cademartori ha apparecchiato contro un orizzonte polveroso: no, non è un gioco, In guerra non vince nessuno, ammonisce il titolo.

Né canta salvezza, solo il sollievo di una pausa quel clown malinconico, un flauto in mano, che Ernesto Lamagna ha scolpito e battezzato come kairos, il tempo che ci scorre davanti come destino imminente.

E se questo caos in cui siamo precipitati fosse solo il colpo di spugna con cui abbiamo dimenticato, accantonate troppo presto, le domande inappagate della nostra infanzia? Dove vanno a finire i palloncini? Ci incalza quella nuvola nera a lutto di involucri di gomma gonfiati ideata da Paolo Di Nozzi (nella foto qui accanto). Il triste spettacolo di un Aquilone dimenticato, che Salvatore Pulivirenti ha dipinto e messo in posa su un fondale d’arancio. Quel mosaico di stanze, finestre, orizzonti lontani di cielo e di mare, che la fantasia di Giuseppe Modica, ci indica come un altrove dove può spuntare la pace.

Peccato manchi la controprova di un pubblico di veri bambini. Non so se avrebbe condiviso i dubbi e i tormenti da adulto smagato di Angelo Colagrossi, una linea tesa come una corda che taglia uno sfondo di luce arancione per incorniciare lo sgomento di vivere in un mondo Quasi al tramonto.

Considerate un po’ vaghe, come consigli di un padre un po’ dinosauro le parole d’ordine Peace and love, che Giulio Dessì, affida alla sagoma in ombra di un uomo che guarda la sua mano protesa. Eppure sono due opere che considero tra le più riuscite.

Sono certo che invece avrebbe approvato e condiviso l’immagine scelta da Stefano Di Stasio, una citazione rubata a memorie senza tempo: uno scamiciato che avanza sventolando una bandiera rossa da comunardo. Se una crociata, una crociata della speranza, deve ripartire, quel vessillo sfrontato è come uno squillo di tromba.

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