Testo e foto di Barbara Renzi
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Vita in kimono

Che cosa nasconde il kimono nella vita delle donne e degli uomini giapponesi? Ritratto di uno degli abiti più radicati nella cultura e più caratteristici dell'iconografia d'oriente

Passeggiando per Tokyo, Kyoto, Osaka, o in prossimità dei templi scintoisti, capita spesso d’imbattersi in giovani di entrambi i sessi che con estrema nonchalance indossano degli splendidi kimono. Per la stragrande maggioranza si tratta di curatissime ragazze, impegnate in accanite conversazioni, ma non manca neanche qualche giovane che ha più l’aria del fratello maggiore e dell’angelo custode che non dell’amante. (Ma le apparenze possono anche ingannare: ricordiamo che nella tradizione antica l’ultimo strato del kimono maschile, quello più aderente al corpo, era spesso ricoperto di disegni pornografici del tipo shunga, a favorire probabilmente uno stato di eccitazione permanente. Anche se poi ci pensavano gli altri otto o nove strati a dissimulare il tutto e a ricondurlo nei limiti della rispettabilità.) Come che sia, e qualunque cosa celino, oggi i kimono colpiscono soprattutto per la bellezza e la ricchezza del disegno e dei motivi ornamentali.

Non possiamo soffermarci qui troppo, per evidenti ragioni di spazio, sulla definizione di kimono, che in entrambe le versioni, quella femminile e quella maschile, è comunque una lunga tunica incrociata sul davanti e fermata da una cintura detta obi, con una manica di una certa ampiezza e priva di cuciture.

Ce ne sono di tutti i tipi e di svariate qualità, ma i più ricchi, fatti di materiali preziosi e tessuti a mano, possono esaurire qualche stipendio.

Né possiamo purtroppo avventurarci in una storia del kimono, che ci riporterebbe indietro di molti secoli. Ci limiteremo quindi a sottolineare le nostre fotografie con alcune significative citazioni da opere di scrittori giapponesi e occidentali che dal kimono hanno dimostrato di essere rimasti particolarmente affascinati.

Cominciamo da Il paese delle nevi di Yasunari Kawabata (la traduzione è nostra): “Il suo kimono spiccava dal collo, e la sua schiena e le spalle sembravano un ventaglio bianco steso sotto di esso. C’era qualcosa di triste nella carne piena sotto quella polvere bianca. Faceva pensare a un panno di lana, e di nuovo faceva pensare alla pelliccia di un animale.”

E proseguiamo con Yukio Mishima, da Neve di primavera: “Non aveva mai atteso con ansia la saggezza e gli altri millantati vantaggi della vecchiaia. Sarebbe stato in grado di morire giovane e, se possibile, senza provare alcun dolore? Una morte aggraziata – come quella di un kimono riccamente decorato che, gettato con noncuranza su un tavolo lucido, scivola senza dare nell’occhio nell’oscurità del pavimento sottostante. Una morte segnata dall’eleganza.”

Tornando indietro di qualche secolo c’è poi la splendida poesia di Matsuo Basho dal titolo Benedizioni a Kasane: “La primavera passa / sempre di nuovo / come fiori-kimono / che tu possa vedere le rughe / che vengono con la vecchiaia.”

Veniamo a noi italiani con una citazione da un articolo di Italo Calvino, intitolato “La vecchia signora dal chimono viola” e apparso nel 1984 in Collezione di sabbia: “Tra i partenti in coda noto una signora anziana in un ricco chimono viola pallido, circondata da familiari giovani, uomini e donne, in atteggiamento rispettoso e premuroso. (…) Basterebbe che mi fermassi un po’ in Giappone e certo anche per me diventerebbe un fatto normale che la gente si saluti con ripetuti profondi inchini, anche alla stazione; che molte signore, soprattutto anziane, portino il chimono col fastoso fiocco sulla schiena che forma una lieve gobba sotto il soprabito e procedano coi piccoli passi trotterellanti dei piedi biancocalzati. Quando tutto avrà trovato un ordine e un posto nella mia mente, comincerò a non trovare più nulla degno di nota, a non vedere più quello che vedo. Perché vedere vuol dire percepire delle differenze, e appena le differenze si uniformano nel prevedibile quotidiano lo sguardo scorre su una superficie liscia e senza appigli. Viaggiare non serve molto a capire (questo lo so da un pezzo; non ho avuto bisogno d’arrivare in Estremo Oriente per convincermene) ma serve a riattivare per un momento l’uso degli occhi, la lettura visiva del mondo. La signora ha preso posto nel vagone insieme a una ragazza sui vent’anni, e ora si scambiano grandi inchini coi rimasti sul marciapiede della stazione. La ragazza è graziosa, sorridente, porta sopra il chimono una specie di tunica chiara, di stoffa leggera, che potrebb’essere una sopraveste da casa, un grembiule.”

Da parte sua, nel romanzo Les évaporés, ambientato in Giappone nell’immediato post-Fukushima, lo scrittore francese Thomas B Reverdy osserva: “Nella sua bocca, gli sembrò che il sake prendesse il gusto fiorito dei loro kimono.”

Finisco con Christopher Isherwood, che nel famoso secondo paragrafo del suo capolavoro Addio a Berlino, scrive, fra l’altro con una bella metafora fotografica: “Sono una macchina fotografica con l’otturatore aperto, piuttosto passiva, che registra e non pensa. Sto riprendendo l’uomo che si fa la barba alla finestra di fronte e la donna in kimono che si lava i capelli. Un giorno, tutto questo dovrà essere sviluppato, stampato con cura, fissato.”

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