Alla Triennale di Milano
Ultimo Frankenstein
Grande successo per il nuovo spettacolo dei Motus ispirato a Frankenstein di Mary Shelley. La lotta per la conquista dell'identità passa anche per l'intelligenza artificiale?
È sempre emozionante assistere ai lavori di Motus, la compagnia romagnola che da anni rivoluziona la scena teatrale offrendo profonde riflessioni sull’esistenza umana. Questa volta li abbiamo visti mettere in scena Frankenstein (A love Story) alla Triennale: la stagione teatrale di questo iconico luogo milanese, ideato negli anni trenta dall’architetto Giovanni Muzio, è ora curata egregiamente da Umberto Angelini e si è nuovamente arricchita di linguaggi internazionali che ne hanno positivamente inaugurato le scene.
I Motus, sempre diretti da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, sono riusciti ancora una volta a scombussolare l’animo di noi spettatori raccontandoci come il nostro quotidiano con le sue costanti paure abbia necessità di essere rimesso in discussione. È questo lo hanno efficacemente realizzato facendoci immergere attraverso la magnetica interpretazione di Alexia Sarantopoulou, nel testo della giovanissima Mary Shelley, che ideò questo famosissimo classico di inizio ‘800 tante volte visto nel ‘900 al cinema e nell’arte in differenti modi più o meno riusciti.
I Motus lo hanno raccontato visceralmente, anche grazie alla presenza scenica di grande impatto di Silvia Calderoli nel ruolo del dottor Frankenstein e di Enrico Casagrande nel ruolo della Creatura che a un certo punto irrompe in scena danzando vorticosamente con musica a balla, accalappiandoci senza tregua.
Abbiamo bisogno di mostruosità, di toccarla, di tenerla vicino. E non a caso lo spettacolo inizia con “il mostro che ci abita”. Cosa sarebbe la mia vita senza il linguaggio?, si domanda Mary Shelley mentre elabora il testo accucciata completamente ignuda sul palcoscenico costituito da continui vapori che impregnano le trasparenti tele semoventi, unico elemento della scenografia, su cui scorrono frasi chiavi dello spettacolo.
Il nuovo progetto di Motus, che si completerà nel 2024 con un’opera filmica, tenta di raccontare l’immaginazione della giovanissima Mary Shelley, emblema del pericolo insito nello sviluppo tecnologico. Ribaltando la prospettiva consolidata nella nostra memoria di questo famoso testo, lo spettacolo riesce a guardare al Mostro da un’angolazione inedita, considerandolo una metafora della diversità, della non-conformità come possibilità. Ricucendo insieme diversi episodi, l’assemblaggio ridà vita all’inanimato, scomponendolo e ricomponendolo sul palcoscenico sullo sfondo di una natura in tumulto, nella quale solitudini radicali si intrecciano per governare l’orrore e l’angoscia: tra minimalismo e citazioni pop, una riflessione profonda e attualissima sull’umanità, le sue paure e i suoi desideri, il suo limite.
Quando vediamo incedere in scena Frankenstein come un automa che non riesce a coordinare i suoi movimenti assistiamo al racconto di come si possa esigere orrore dal caos infondendo la vita a un essere inanimato. Come se la vita fosse troppo stretta per possederci e inevitabilmente ci uscirà dalle cuciture del nostro animo.
“Devo mandare a fanculo la mia malinconia” ci grida l’autrice. “Una cosa è sicura: Se la natura è ingiusta occorre cambiare le natura”. “Perché niente può durare”, ci ricorda Frankenstein mentre ci racconta in un angolo, al riparo dal freddo, e ancor più dalle barbarie umane, la sua immagine del mondo a cui è approdato grazie all’autrice.
Se non sei né ricco, né nobile, se sei considerato uno schiavo, un niente, io che non sono nato da nessun padre, da nessuna madre, di cosa sono fatto? Cosa si distingue l’uomo dalla macchina? Dalla intelligenza Artificiale? Strana cosa è la conoscenza: attraverso lei, anche noi spettatori, ci aggrappiamo come un lichene alla roccia. Per sopravvivere assieme a Frankenstein in questo mondo così al limite dell’umano.
Le fotografie sono di Margherita Caprili.