“Alburno” di Fernando Marchiori
Tra terra e mare
Il viaggio lagunare del poeta nell'orizzonte mobile di barene e velme, emerse o sommerse secondo le maree, si fa narrazione fantastica in versi. E il paesaggio vissuto e necessario diventa scrittura dello sguardo. Sullo sfondo l’infanzia e le “montagne rosse” di Marghera
«Questa è la Laguna, questa non è la Laguna, questo è l’enigma della Laguna, questa è la chiarezza evidentissima della Laguna». Si potrebbe partire forse da questo chiasmo di Andrea Zanzotto (ora tra le prose di Luoghi e paesaggi, Bompiani 2013), per provare a delimitare, fin quanto è possibile, l’orizzonte mobilissimo in cui si muove la sorprendente affabulazione poetica di Fernando Marchiori. (Alburno, Il Ponte del Sale, Rovigo 2022, 62 pagine, 14 euro). Narrazione fantastica in versi o costruzione poematica, come si voglia dire, essa si fa campo d’indagine di una realtà che per la sua stessa conformazione naturale esula da confini definiti, manifestandosi piuttosto come soglia, elemento non di rado inafferrabile tra terra e acqua. Le barene, e forse ancora più le velme, terre emerse e sommerse a discrezione delle maree con i loro canali, le ghebe, ne sono l’affascinante emblema.
È il quadro che si presenta come in sogno agli occhi di un uomo solo e fermo a un ingorgo di traffico nell’antica via Romea, restituendogli di colpo una memoria personale e insieme il senso di una storia collettiva al tramonto, nell’incontro con un mondo di delicato, compromesso equilibrio: «Era solo ieri, e così è stato / da quasi sempre e più non sarà». La lucidità perentoria dell’enunciato si accompagna a una porosità dello sguardo che dalle erbe, le infiorescenze, i «mosaici di detriti alluvionali» – bellissima e desolata sinestesia – giunge a posarsi come ricordato sui destini generali fino ad aprirsi «un varco nell’entroterra dell’anima», stante che il soggetto che d’improvviso prende la parola quei destini, in figura di epigono, condivide. Lo vediamo – egli si vede – così bambino su una «di quelle montagne rosse» su cui i ragazzi più grandi fanno evoluzioni in motoretta; un micidiale accumulo di deiezioni industriali del petrolchimico di Marghera che «sembrano dune marziane, eruzioni / della pelle marcita della terra, / acne secca, lentiggini sulla bocca / screpolata della laguna, sembrano / aggregazioni fantasiose, visioni / precipitate sul fondo del giorno, / concrezioni alchemiche…».
La qualità della scrittura di Marchiori, come si può evincere anche da questa breve citazione, è parte integrante del suo viaggio lagunare, in un rapporto di necessaria interdipendenza con il paesaggio: «Vivevamo di paesaggio e il paesaggio / era la scrittura dello sguardo». E va infatti aggiunto che quello delle barene non è solo rifrazione illusiva, iridescenza madreperlacea, «prati d’acqua» (Comisso), ma infiorescenza tenace – «nel suo mistero di salmastro e fango» – vita palustre, umile durare di esistenze animali e vegetali fin dal loro lessico prezioso, quasi «parole di una lingua morta»: salicornia, cineraria, limonio, gracilaria, carletti, bruscandoli… Un lessico che vediamo scivolare parcamente ma volentieri nel substrato dialettale – erba baségola, lièvori, sanpierota, peoci, garùsoli… – in significativo contrasto con i termini di una modernità industriale che è già archeologia: argine di conterminazione, canale dei petroli, casse di colmata, benne… Tra questi due poli, linguistico e di paesaggio, vivono la comprensione storica e il ricordo, lo spaesamento e il fascino per quanto ha comunque il bene di resistere e nel suo enigma sopravvive. E ne è straordinaria insegna «un pioppo tutto spampanato / ma ancora flessuoso». Indimenticabile figura sempre «tra terra e mare» che non ci parla solo del microcosmo di cui è elemento: «Albero rimasto lì da solo, / muto, sperduto, / senza il bosco della lingua, / morte le fibre del linguaggio, / senza paesaggio, senza sguardo».
Raramente in poesia un tema di questo rilievo è stato posto con tanta apparente naturalezza e icasticità, con tanta poesia.