Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Storie di tombaroli

Convince solo a metà il nuovo film di Alice Rohrwacher, "La chimera". Un apologo - infarcito di troppe citazioni - sulla vita dei tombaroli brutti, sporchi e cattivi

Avevo un buon motivo, anzi due, per vedere subito il nuovo film di Alice Rohrwacher, La chimera, anche se questa regista l’ho sempre trovata faticosa. La prima ragione è che tra gli ispiratori del film c’è il libro I predatori dell’arte perduta di Fabio Isman, maestro di giornalismo e amico mio, ringraziato alla fine dei titoli di coda dopo i fornitori di acqua e caffè (francamente speravo in qualcosa di meglio, per citare Battiato). La seconda ragione è personale: ho un’antica passione per l’archeologia e per questo frequento la Maremma tra Toscana e Lazio dal 1976, potrei dire che ci sono necropoli che conosco meglio di Bologna.

Presentata in concorso a Cannes, questa pellicola tratta dunque un tema tanto inconsueto quanto a me familiare: i tombaroli, i predatori dell’arte perduta brutti sporchi e cattivi che devastano da sempre le aree archeologiche italiane, soprattutto etrusche, gente pronta a sfondare le tombe con le ruspe. La miseria e l’ignoranza di cui i tombaroli sono espressione vengono raccontate efficacemente nel film, la scelta dei luoghi è corretta (ho riconosciuto la necropoli di Blera nel viterbese), la sceneggiatura è realistica, l’analisi antropologica dei personaggi azzeccata, compreso l’archeologo inglese Arthur (Josh O’Connor, visto nelle serie tv The Crown e The Durrells) che ha tradito il mestiere per unirsi ai tombaroli che usano il suo dono: è un rabdomante che percepisce il vuoto sotterraneo.

Ma 140 minuti, tanto dura la pellicola, sono troppi anche per una appassionata di Etruschi come me, alcune situazioni si ripetono e il ritmo si perde. E poi il film è un festival di citazioni, come se la regista fosse a corto di idee: dai volatili di Uccellacci e uccellini di Pasolini al Gattopardo di Visconti, quando la banda di paese suona lo stesso brano che accoglie a Donnafugata il principe di Salina, fino agli omaggi ripetuti a Fellini (la statua della dea che transita in cielo appesa a una gru cita La dolce vita, l’aria che polverizza i colori delle pareti dipinte di una tomba è uno degli episodi di Roma). Non è invece una citazione ma una vera copiatura ciò che fa Italia, la domestica di Flora (una svanita Isabella Rossellini): insegna ad Arthur il significato della gestualità degli italiani ed è la fotocopia del celebre sketch con cui il compianto John Peter Sloan apriva i suoi corsi d’inglese. Sospetto che persino il titolo La chimera debba qualcosa all’omonimo libro di Valerio Massimo Manfredi.

Elenco tutti questi dettagli perché il film mi ha convinta a metà. “L’opera più misteriosa e profonda di Alice Rorhwacher”, così viene presentato. Sulla profondità non si discute visto che tutte le scene clou avvengono sottoterra. Il mistero invece manca, o almeno io l’ho visto solamente nel filo d’Arianna, anzi di Beniamina, la ragazza probabilmente morta di cui Arthur è sempre innamorato. Il filo scompare nella terra nella scena iniziale e ricompare nella tomba nella scena conclusiva. Le oltre due ore che ci stanno in mezzo quel mistero e quel filo lo perdono.

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