Gabriella Palli Baroni
Lucilla Albano “Il cinema e l’oggetto perduto”

La totalità che non c’è

Indagine competente e poetica di una serie di film melodrammatici prediletti dall’autrice. Secondo l’assunto psicoanalitico e artistico per cui l’oggetto perduto in cui si identifica lo spettatore (il soggetto), suscita sentimenti di perdita e nostalgia. Da Elia Kazan a Almodóvar

Il piacere che confessa l’autrice, Lucilla Albano, nell’aver composto il suo Il cinema e l’oggetto perduto (Marsilio, Venezia 2023) anticipa lo stesso piacere che la lettrice prova nel percorrere con lei il tema psicoanalitico e artistico dell’oggetto perduto. Tema questo quanto mai suggestivo comparato com’è col desiderio, con le “parole perdute” di Scott Fitzgerald («Ma non emisero suono, e ciò che avevo quasi ricordato fu incomunicabile per sempre», Il grande Gatsby) riportate nell’epigrafe, ma anche con le immagini perdute, la magia del cinema e il mistero. È proprio l’attrazione verso il mistero e la forza dell’amore e della passione, dell’avventura d’amore ad aver guidato Albano spettatrice, ma anche studiosa di cinema, a ripercorrere il motivo scelto con intelligenza critica e sguardo partecipe.

Diversi film, i prediletti, scorrono lungo i capitoli, a partire da Splendor in the grass (Splendore nell’erba) di Elia Kazan, «uno dei più bei melodrammi della storia del cinema», cui riconosce il pregio di opera di formazione, della sua formazione. Ma altri film appartenenti in buona misura al genere del melodramma, in cui viene messo in scena un amore impossibile, ci accompagnano lungo le pagine dotte e appassionate. Con Peter Brooks dell’Immaginazione melodrammatica, Albano estende ad una struttura psicologica universale il motivo dell’oggetto perduto. Così attraverso il Freud della pulsione sessuale e della sua frustrazione, dell’ostacolo necessario per spingere in alto la libido e poter godere dell’amore, e Lacan, che sostiene che il desiderio non può avere alcun oggetto, si giunge alla nostalgia per un oggetto mancante, che non si può trovare, essendo la ripetizione sempre cercata e mai soddisfatta. Entrambi peraltro parlano di «una nostalgia che lega il soggetto all’oggetto perduto»; Lacan all’“oggetto a”, all’“objet petit a ”, un oggetto «reso impossibile, impedito, sottratto o tradito, di volta in volta o da circostanze esterne o da meccanismi psichici e coattivi interni alla coppia». Non solo. Lucilla Albano fa coincidere la struttura del melodramma con quella cinematografica sì che il «soggetto- spettatore si identifica in un oggetto – le immagini che passano sullo schermo – impossibile, inafferrabile, in un oggetto che non è reale, ma che dà l’impressione di esserlo, che offre un’illusione referenziale». Ne consegue una mancanza di appagamento, una pienezza solo fuggevole e apparente, che risveglierà il desiderio: «Siamo profondamente dentro il film (quando ci siamo) e nello stesso tempo stiamo sempre per perderlo, lo abbiamo già sempre perso. Nel film, nella sala oscura, c’è qualcosa della nostra totalità perduta».

L’indagine dei film, qui studiati alla luce di questo assunto psicoanalitico, accanto a note autobiografiche, rivela perfettamente il meccanismo del genere, iniziando dal melodramma romantico o Women’s film di Waterloo Bridge (Il ponte di Waterloo) e Random Harvest (Prigionieri del passato) di Mervyn LeRoy e The Life and Death of Colonel Blimp (Duello a Berlino) di Michael Powell e Emeric Pressburger. Sono film che, pur nella diversità, evocano l’esperienza inconscia dell’oggetto perduto e del “sostituto”, di ciò che resta, oggetto talismano (un amuleto, una chiave), comunicando il sentimento della perdita e della nostalgia, che diviene allucinatoria e fortemente emozionale nel terzo film. Nella ricchezza delle argomentazioni, che si sviluppano lungo i capitoli, altri aspetti del tema vengono messi in evidenza. Sono il ricordare e il sogno, il corpo e la passione amorosa, lo specchio e lo sguardo, la memoria e lo spazio-tempo onirico, l’inquietante intensità di un’inquadratura, tutti motivi che permettono ad Albano di analizzare, con competenza e partecipazione che sa sfiorare la poesia (bastino i versi di Caproni sulla «spina della nostalgia» o l’epigrafe da Eliot dei Four Quartets del cap. 9), senza nascondere le difficoltà nell’interpretare o definire. Sono film che appartengono alla grande storia del cinema da Smultronstället (Il posto delle fragole), Persona e Fanny och Alexander di Ingmar Bergman a Spellbound (Io ti salverò) di Alfred Hitchcock e Caché, (Niente da nascondere) di Michael Haneke, dai film di Almodóvar, cui è dedicato un intero capitolo, a The French Lieutenant’s Woman (La donna del tenente francese) di Karel Reisz ai film di Jean-Luc Godard, Jean Epstein, Orson Welles, Lewis Milestone, Kim KI-duk , Thomas Anderson e Alain Resnais.

Piace infine indicare il particolare interesse che suscita l’Appendice Frankestein, Jekyll e Freud, esito di un saggio tra letteratura cinema e psicoanalisi, pubblicato in modo ridotto sul “Nuovi Argomenti” nel 1983 e riproposto ora nella sua integrità come “dattiloscritto ritrovato”, in cui alla luce dell’analisi la colpa diviene con Freud «una legge universale, dove il desiderio non ha colpa, se non inconscia».

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