Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il soldati di Cendrars

Tornano in libreria due opere di Blaise Cendrars. Rappresentano l'occasione per rileggere uno scrittore che ha affrontato con sarcasmo la tragedia della guerra: un insegnamento che oggi purtroppo è tornato utile

Per i tipi di Marietti 1820 sono stati ripubblicati da poco due testi fondamentali di Blaise Cendrars, Ho ucciso e Ho sanguinato, nella stessa traduzione di Francesco Pilastro e con la medesima nota esplicativa di Paolo Rumiz già apparse otto anni fa per le edizioni Nonostante. La speranza è che il libro possa ora godere di una maggiore promozione e distribuzione nelle librerie e raggiungere più facilmente i già pochi lettori forti di cui disponiamo. Perché si tratta di due testi davvero importanti per capire non solo uno dei massimi autori francesi del Novecento e la sua parabola, ma anche un certo modo di guardare a quell’immenso sacrificio umano che fu la Grande Guerra. Ciò vale in particolare per J’ai tué (uscito il 3 febbraio 1918, con cinque disegni di Fernand Léger), che verrà definito l’anno successivo dal suo secondo editore, Georges Crès, “il più piccolo libro sulla guerra (pesa 8 grammi), ma il più pesante”.

Scrittore svizzero poi naturalizzato francese, Cendrars, il cui vero nome era Frédéric Louis Sauser, nasce il 1° settembre 1887 a La Chaux-de-Fonds, in Svizzera e, dopo un lungo periplo in Russia (San Pietroburgo) e a New York, dove assume uno pseudonimo che rimanda a braci e cenere, si trasferisce a Parigi nel 1914, poco prima della guerra. Allo scoppio della stessa lancia, assieme all’italiano Ricciotto Canudo, originario di Bari e perciò soprannominato “le barisien parisien”, un appello a tutti gli artisti stranieri residenti nel paese affinché accorrano in soccorso della Francia aggredita dai tedeschi. L’appello avrà un notevole successo: in tre mesi l’esercito francese si troverà a dover inquadrare circa quarantamila volontari stranieri. Cendrars sarà fra i primi ad arruolarsi e, non essendo cittadino francese, verrà destinato, com’era d’uso, a un reparto della Legione straniera. Dopo una prima fase di stazionamento in Alsazia e nei villaggi situati dietro il fronte della Somme, il 25 settembre 1915 il suo reggimento partecipa alla grande offensiva nella Champagne e ne risulta praticamente annientato. Il 28 settembre, durante uno scontro a fuoco, Cendrars, colpito da una raffica di mitragliatrice, riporta una grave ferita: è salvato dai suoi commilitoni, ma in un’ambulanza gli viene amputato il braccio destro. Il trauma della mano violenta (perché in guerra ha ucciso) e poi violentemente estirpata dal suo corpo, quasi per una legge del contrappasso, s’insedierà in lui per tutta la vita, continuando ad arrecargli dolore fisico – con diversi interventi chirurgici e tentativi infruttuosi di servirsi di protesi – e soprattutto psichico. E da quel momento, a cominciare dal poema La guerre au Luxembourg (1916) e continuando appunto con J’ai tué, i suoi libri saranno tutti scritti con la mano sinistra: di J’ai tué, in particolare, Cendrars dirà che si tratta di una vera e propria “page de sang” (pagina di sangue).

L’esperienza della guerra è del resto strettamente connessa a quella della perdita dell’arto, sulla cui importanza sono fioriti in gran numero gli studi critici. Anche se poi del suo trauma Cendrars parla poco e con grande ritrosia, preferendo soffermarsi invece su aspetti più generali. Basti ricordare qui con quanta lucidità e ironia Cendrars denunci, nell’ultima sezione della “parodia tragica” in versi La guerre au Luxembourg, attraverso la descrizione dei giochi bellici di un gruppo dei bambini ai giardini del Lussemburgo, la retorica della lotta cavalleresca, patriottica e sacralizzata, opponendole una visione concreta (e certamente più solitaria), da cui l’immagine della guerra esce completamente rivista e ricondotta ai suoi elementi di base, ovvero la distruzione, la carneficina, l’inciviltà. Né la lirica, né l’epica, avverte Cendrars, possono essere moduli espressivi utili a rappresentarla: assistiamo qui anzi al fallimento dei poteri performativi del linguaggio poetico tout court.

Gli stessi concetti, ma in forma ancora più marcata e impietosa, percorrono J’ai tué, suddiviso in diverse sezioni che porteranno in modo quasi inevitabile al climax drammatico. Qui Cendrars descrive anzitutto i soldati in marcia verso il fronte, immagine che si contrappone con notevole vis ironica (ma l’umorismo nero di Cendrars vira presto verso il sarcasmo) a quella del Grande Capo, immerso in calcoli bellici al riparo di una villetta, con una chiara contrapposizione fra la realtà dei soldati mal equipaggiati e una ben pasciuta gerarchia militare. (Va sottolineato come il testo manchi completamente di nomi e di riferimenti spaziali o temporali, il che fa pensare alla chiara intenzione, da parte dell’autore, di scrivere un vero e proprio apologo, dalla validità generale.) All’arrivo sul campo di battaglia i soldati sono subito inseriti nell’azione bellica vera e propria, sospinti dall’urgenza (e da un Cendrars ispirato da folgoranti metafore) verso il massacro. Non mancano episodi sconcertanti e financo disgustosi, come quello dei saccheggiatori di cadaveri; né manca la consapevolezza, che da noi ritroveremo con accenti amari anche nei diari di Gadda, della codardia dei propri simili. Quando a un certo punto viene distribuito un certo numero di coltelli, il narratore ne agguanta uno a serramanico, essendo psicologicamente pronto, ormai, a passare a uno scontro corpo a corpo, all’arma bianca, appunto, con il nemico. Per primitiva che l’arma possa sembrare, il protagonista si rende conto in quel momento che alle spalle e all’origine di tutti gli armamenti c’è un enorme sforzo industriale, una vera e propria macchina da guerra messa in piedi per consentire a lui e ai suoi commilitoni, in un clima di generale brutalità e di nuda violenza – priva peraltro di qualunque alibi patriottico –, di uccidere e vincere, di trasformare il soldato in un lucido assassino, in un macellaio dei suoi simili. Cosa che infine avverrà, nella terribile chiusa del racconto, raccontata con una freneticità paratattica che suscitò un certo scalpore, tanto più che con questo breve testo Cendrars sembrava voler superare e annullare le più elaborate e verbose testimonianze di guerra precedenti, compreso il popolarissimo Le feu (Il fuoco) di Henri Barbusse, che alla sua pubblicazione, nel dicembre 1916, aveva ottenuto un successo eccezionale. In un altro testo di molto successivo, pubblicato addirittura nel 1946, La main coupée (La mano mozza), Cendrars finì poi per edulcorare l’episodio finale, facendo parziamente ammenda per la sua giovanile irruenza, tanto da far considerare ai critici J’ai tué come un hapax nella produzione dello scrittore. Ma quello di J’ai tué, nella sua immediatezza, resta un finale da antologia, che condensa in pochissime parole tutto l’orrore di quel conflitto durato un’eternità.

Non è escluso che sia stato proprio J’ai tué ad accentuare e sancire l’allontanamento di Cendrars dai poeti surrealisti, che nel libro e nel suo finale cruento vollero vedere frettolosamente e con una certa superficialità un’esaltazione della guerra e della violenza. I surrealisti ne ignorarono peraltro sia la pubblicazione del 1918, sia quella del 1919, alla quale Léger aveva aggiunto anche un ritratto del giovane scrittore. E questo avvenne, benché alcune delle poesie di Cendrars fossero state pubblicate nella rivista Littérature diretta da Aragon, Breton e Soupault. Il fatto è che in quel momento i surrealisti avevano deciso di disinteressarsi della guerra e di passare ad altro, e il mutilato Cendrars, con la sua insistenza su temi dolorosi ma dai quali appunto ci si voleva liberare, stava diventando per tutti loro un ostacolo in questa gigantesca opera di rimozione. Per i surrealisti, qualunque opera che tematizzasse il conflitto rischiva di trasformarsi in réclame, in una pubblicità a posteriori (e mistificatoria) per la guerra stessa, pubblicità particolarmente sofferta e virulenta nel caso di J’ai tué, da loro letto come un’apologia della guerra. Le stesse riserve, del resto, a eccezione del solo Breton, i surrealisti le avevano espresse a proposito dei Calligrammes di Apollinaire e in particolare del famoso e famigerato verso “Ah Dieu! que la guerre est jolie” che ne apre la poesia Le délire du fantassin. La rottura finale con i surrealisti avverrà qualche anno più tardi, con gli attacchi in particolare di Aragon intorno al 1928-29, ma qui se ne vedono chiaramente i prodromi, e Cendrars si chiuderà in un isolamento sempre più accentuato, refrattario com’era, del resto, a qualunque tipo d’intruppamento in una corrente o scuola. Per Cendrars, il creatore è sempre un solitario. E, come scrisse con un sottile calembour il critico Claude Leroy nella prefazione alle opere poetiche, per lui l’avanguardia poteva aver avuto un senso solo prima della guerra (“l’avant-garde est d’avant-guerre”).

Il secondo testo qui riportato, J’ai saigné, sarà invece pubblicato da Cendrars vent’anni più tardi, nel 1938, con l’editore Grasset, all’interno di una raccolta di racconti intitolata La Vie dangereuse, ed è quindi solo ventitre anni dopo la perdita del braccio che Cendrars riesce a parlare davvero ed esplicitamente della sua esperienza, tornando a denunciare in modo inequivocabile non solo il massacro della guerra in sé, ma l’imperizia e la sprovvedutezza con cui fu combattuta. Qui Cendrars descrive nei più minuti particolari le vicissitudini immediatamente successive all’amputazione, da quando un’ambulanza lo trasporta al vescovado di Sainte-Croix a Chalons-sur-Marne, riconvertito in ospedale militare, dove suore e infermiere lo prendono in carico. Con la responsabile dell’ospedale, Adrienne, Cendrars stringerà una forte amicizia, venata di complicità, così come fraternizzerà con un giovane pastorello gravemente ferito. La morte di questi sarà però accelerata, dopo atroci sofferenze, dall’inopinata ispezione di un generale che è anche un luminare, uno dei più famosi dottori di Parigi, ma che per dimostrare la propria abilità medico-chirurgica finisce solo per mietere vittime.

In un racconto scopertamente autobiografico, Cendrars denuncia ancora una volta come una guerra cominciata per difendere il paese e perseguire un ideale si sia trasformata, per imperizia, presunzione e vigliaccheria degli alti gradi civili e militari, in un’assurda carneficina. Lo fa però con accenti d’umanità nuova, sicuramente assenti nell’opera precedente, che testimoniano di quanto la riflessione sulla guerra si sia amplificata e articolata in questi vent’anni nella sua mente, e di come abbia cominciato a percorrere, come un sotterraneo fil rouge, tutta la sua opera.

Da citare infine a questo proposito, perché molto interessante sotto il profilo dell’espressione artistica, anche l’esperienza cinematografica di Cendrars, soprattutto per la sua partecipazione al film J’accuse di Abel Gance, come assistente ma anche come consulente per la vita in trincea. In una delle ultime sequenze del film, il protagonista Jean Diaz, un soldato ferito, racconta a tutti di un sogno che ha fatto, in cui si vede un esercito di feriti e mutilati risorgere dai campi di battaglia e tornare ai loro villaggi, per verificare se l’aver sacrificato la vita sia davvero servito a qualcosa. Proprio in prima fila, in questo esercito di morti viventi, compare con il suo moncherino, in una celebre sequenza, anche Cendrars. Era la prima volta che il cinema faceva davvero i conti con la centralità della morte nel conflitto, senza ricorrere ad alcuna grandeur, ad alcuna mitologia. Sembra che la sequenza sia stata, almeno in parte, ispirata dalle difficoltà che Cendrars ebbe a partecipare ai funerali di Apollinaire, il 13 novembre 1918. I festeggiamenti per la vittoria bloccarono infatti completamente Parigi, in un delirio collettivo che a Cendrars ispirò solo un senso di indignazione e disgusto, perché venivano completamente ignorati gli inauditi sacrifici umani che si erano resi necessari pr raggiungere quel risultato. Otto giorni dopo, di ritorno a Nizza dove si svolgevano le riprese, Cendrars organizzò uno squadrone di soldati feriti per girare appunto una delle sequenze più famose nella storia del cinema di tutti i tempi, sequenza che riecheggia fra l’altro il ritorno dei soldati caduti, evocato nella poesia Ombre proprio dall’amico e rivale Apollinaire. Il film, proiettato a partire dal marzo 1919 nelle sale Gaumont, provocò negli spettatori un enorme turbamento, e se ancora ne parliamo vuol dire che Cendrars e Gance avevano proprio colto nel segno.

Facebooktwitterlinkedin