Al Palazzo Reale di Milano
Morandi e l’essenza
Una delle maggiori studiose dell'opera di Giorgio Morandi analizza la grande mostra milanese. Spesso l'impostazione critica è convincente, ma l'illuminazione e certe opere lasciate senza contesto penalizzano il grande maestro bolognese
Qualche giorno fa ho visto a Milano l’imponente mostra antologica di Giorgio Morandi, allestita al piano nobile di Palazzo Reale per la cura critica di Maria Cristina Bandera. L’ho visitata con molta attenzione, un po’ perché studio da quarant’anni questo artista grandissimo, uno tra i maestri assoluti del XX secolo, e un po’ perché credo che la sua arte meriti cura e concentrazione costanti; e rispetto per lui, per chi lo studia e anche per chi gli si avvicina, per la prima volta o come a un vecchio amico molto amato.
La mostra è importante in quanto ricca di autentici capolavori, e ben si avverte l’impegno sia critico che organizzativo e finanziario che hanno portato a questo risultato notevole, che sicuramente contribuirà ad una ancor maggiore diffusione del nome di Morandi.
La mostra è importante e, con le sue centoventi opere esposte, certamente va vista: come ha osservato la grande collezionista Paola Giovanardi, se ne esce avendo ben compreso che Morandi è un genio. E questa non è cosa da poco.
Ci sono sale che tolgono il fiato per la bellezza, soprattutto la seconda che schiera tre Nature morte metafisiche, una accanto all’altra, di uno splendore che abbacina e non chiede parole (questi manichini senza volto «stanno» nella luce interiore che da loro stessi sprigiona con quell’ «impenetrabilità di un corpo celeste», così felicemente intuita da Cesare Brandi) e pure la saletta con la Natura morta con la lampada a destra del 1928 e la corrispondente acquaforte, di cui sono esposte anche la lastra originale incisa da Morandi e gli otto stati della tiratura (operazione questa di meditata filologia, che aiuta il visitatore nella comprensione del complesso processo calcografico scelto e sempre rispettato dall’artista per la sua opera grafica). E notevoli sono alcune pareti in cui la curatrice evidenzia concretamente, con le opere, il concetto di “variante” morandiana (un’unica composizione di base che si traduce in dipinti uno diverso dall’altro grazie al variare della luce, del punto di vista, della posizione dei modelli, della distanza tra le forme): il gruppo di tre Nature morte con la lattina centrale del 1946-‘48, quello con le due bottiglie bianche lunghe del 1951-‘52 (qui sono presenti ben quattro varianti dello stesso motivo iconografico) e il terzo insieme di tre composizioni con lo straccio giallo dello stesso 1952. E infine l’accostamento rivelatore – peraltro non nuovo: l’ho proposto io stessa in più occasioni – tra un Paesaggio “vuoto” del 1963 e la corrispondente Natura morta con le due “bottiglie persiane” dello stesso anno, utilissimo per comprendere come per Morandi composizioni di oggetti e tagli di natura abbiano la stessa importanza e lo stesso significato: dare un corpo a ciò che sta dietro l’immagine, rendere visibile sullo schermo dell’«inganno consueto» ciò che non è immediatamente percepibile, l’«essenza» del reale (ma c’è un limite alla rappresentazione? Per cinquant’anni Morandi ha cercato di dare risposta a questa domanda).
Quindi una mostra con tante luci ma in cui non manca qualche ombra. Va detto infatti che la sede, pur prestigiosissima, non è proprio la più adatta all’arte morandiana con le sue prime sale sfarzose e gli altri spazi un po’ “rimediati”, con passaggi angusti e un’ultima sala trascinata verso l’uscita da un’evidente fretta di chiudere. E poi c’è il problema della luce, anzi dell’illuminazione scelta per questi dipinti che vivono di luce e che nella luce risolvono in colore la fusione tra forma e spazio. Qui non ci sono finestre e quindi non entra neppure un raggio naturale; l’illuminazione è del tutto artificiale e a una luce diffusa e omogenea, tecnicamente possibile, si è preferito il classico spot teatrale puntato su ogni singolo quadro. Non si tratta davvero di una cosa nuova, è un metodo in uso da decenni che ha il vantaggio di spettacolarizzare l’opera, di farla emergere dall’ombra, di isolarla dal contesto. Tutto bene (magari per altri artisti, per altri dipinti che hanno bisogno di un sostegno, di un “aiutino”, di una marcia in più), ma non per Morandi che di tutto questo non ha proprio bisogno.
Al limite, il rischio di questo metodo è quello di appiattire la superficie dipinta fino a fare assomigliare il quadro a una fotografia retro-illuminata, annullando la pennellata e omogeneizzando il colore. In questa mostra i dipinti sono fruibili, ma l’affascinante fisicità, stremata e tesa all’essenziale, della pennellata morandiana in parte si perde insieme al suo tocco nervoso, al suo segno così personale. Quella di Morandi non è solo arte mentale (sì, lo è certamente, ma c’è dell’altro) perché è anche pittura, pittura straordinaria che va goduta pennellata per pennellata. E, forse, il segreto della sua unicità sta proprio in questo incontro tra pensiero e fisicità della tela e del colore, un’idea visiva che si fa materia raffinatissima e sapiente.
Le opere esposte forse sono troppe e, al tempo stesso, troppo poche: troppe, se si considerano alcuni dipinti che sono lì, da soli, e sembrano non legare con gli altri, non godere di tramandi significativi (un’unica Natura morta con quel rosso squillante che Morandi “scopre” nel 1938 e di cui si serve per dipingere tele sorprendenti, inaspettate, per la terza Quadriennale romana; una sola “teiera” degli anni Sessanta che se ne sta un po’ spaesata nell’ultima sala e che può passare perfino inosservata se non si sa che a questo oggetto di una geometria tridimensionale tutta particolare Morandi dedica negli anni molta attenzione e molte opere).
E sono troppo poche per lo stesso motivo, in quanto ad alcuni cicli poteva essere riservata un’attenzione maggiore, ad esempio agli ultimi, commoventi Paesaggi della stagione estrema, prime prove di un ulteriore sviluppo, ancor più essenziale della ricerca, che purtroppo Morandi non ha avuto il tempo di approfondire (in mostra ne figura uno solo).
Il risultato è che le opere sono disposte secondo un ritmo fisso e a distanze regolari sulle pareti delle varie sale, accostando a volte “opere sorelle” (e qui la mostra appare del tutto convincente) e altre volte opere diverse tra loro che faticano a dialogare e che non rendono pienamente giustizia all’intima, interiore poesia di Morandi, «artista difficile e segreto» (è ancora Brandi a parlare), alla coerenza interna della sua pittura, allo sviluppo così meditato del suo lungo cammino, a quella «costante lucidità» che Roberto Longhi individuò nella sua arte, definendola magistralmente non come una parabola – che, dopo aver raggiunto l’apice, ricade a terra – ma piuttosto come «una traiettoria ben tesa», fino all’ultimo indirizzata verso l’alto.