Al Museo Andersen di Roma
Merletti di luce
Carolina Lombardi espone i suoi "ricami poetici": sentieri e ramificazioni di segni bianchi applicati su lastre di plexiglass sembrano proprio come dei merletti che riorganizzano il caos
Non si può pettinare il mare, ammoniva Dylan Thomas, un grande poeta, evocando i riccioli ribelli delle onde che sempre, anche in piena bonaccia, lo increspano. A suo modo Carolina Lombardi invece ci prova seguendo la sua collaudata vocazione d’artista che esplora tutte le strade possibili verso l’invisibile. Utilizzando proprio il pettine della poesia, che accompagna e guida come una bussola le sue ricerche visive. Lo fa in una mostra appena inaugurata a Roma nelle sale del museo Andersen dove terrà cartellone fino a febbraio, che racchiude questa sfida in un titolo: Ricamando il caos. E in una ventina di opere di fascinoso impatto simulativo che raccontano il suo percorso.
A distanza lo sguardo inquadra altrettanti schermi luminosi, addossati alle pareti o adagiati in orizzontale, nei quali sentieri e ramificazioni di segni bianchi applicati su lastre di plexiglass sovrapposte galleggiano, si intrecciano ad altri segni colorati, ci penzolano davanti proprio come merletti.
Il caos imprigionato e sprigionato da un ricamo appunto: ogni quadro come la mappa di un labirinto da attraversare senza la paura di smarrirsi e di precipitare nell’irrealtà. Come? Accettando d’istinto le intenzioni dell’autrice, che svincolano il caos dall’abisso del disordine, abitandolo come un movimento misterioso, uno scarto imprevedibile che governa la vita, la genera e la preserva.
Un universo che lei cerca di avvicinare spostando il suo sguardo verso l’altrove dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, che si dischiude se affidiamo la vista ad un microscopio o a un telescopio, e diamo credito ai calcoli e alle intuizioni con cui la scienza amplia, trovando conferma in laboratorio, il suo campo d’indagine.
Una vertigine di pieni e di vuoti che ci accoglie se abbandoniamo la ingannevole concretezza del nostro corpo e delle abitudini con cui diamo nomi agli oggetti che ci contornano. Accettiamo insomma di disfarci della supremazia dell’umano per trovare relazioni ed empatia con gli universi paralleli che in modo diverso, interpretano l’istinto di sopravvivere, perpetuarsi. adattarsi al ciclico alternarsi di vita e morte.
Che vuole farci vedere Carolina Lombardi con quei suoi merletti, accesi di luce? È lei stessa a spiegarcelo nel prologo che ha inserito in catalogo. «L’energia incessante che anima la vita – scrive con una lucidità rara per un artista visiva – non è forse essa stessa un ricamo, un tessuto, una rete costituita da migliaia di connessioni in continua evoluzione? L’io isolato e identitario si perde nella sua insignificanza per ritrovarsi particella di un flusso ordinatore nelle trame transpecie che generano luce. Potrei dire che la mia è un’arte che riscatta gli ultimi del pianeta, ragni, batteri, reti neurali, piante, fiori, nervature d’ali, insetti, minerali, reticoli sarcoplasmatici, membrane cellulari».
Un tessuto di relazioni nascoste insomma nel quale l’autrice rintraccia e distilla il mistero di un paesaggio interno ed esterno lanciando una sfida che giustamente al curatore Gabriele Simongini ricorda la postura poetica del romanticismo. Ma per raggiungere quell’effetto di abisso e d’eternità l’artista deve poi costruire una macchina che catturi l’effetto.
Che cos’altro sono se non macchine quei cassetti che imprigionano e incorniciano i segni e la profondità dello spazio attraverso un dosato inserimento di luci al led. Non quadri insomma ma tappeti luminosi, interventi d’arredo di sofisticato design. Campioni d’arte applicata che a volte sembrano sfiorare il decoro, raggelare la visione, quando l’alternanza di pieni e vuoti sembra ripetere una formula, chiedere eccessivo sostegno all’algoritmo di un calcolo razionale.
Per restituire a quelle visioni una voce più coinvolgente ed intensa il visitatore deve avvicinarsi all’immagine, entrarci dentro, abitarla. Solo così puoi cogliere la vera natura di quei segni bianchi che la luce ti solleva davanti. Sono catene di parole scritte a mano, liberate dalle relazioni che in partenza le piegavano al senso e alla continuità di una frase, di un verso. Istanti di poesie che restituiscono a Carolina Lombardi la sua identità di poetessa e poi subito gliela sottraggono trasformandosi in vibrazioni, tessere in libertà che si aggiungono agli echi e ai silenzi di un cosmo aggrovigliato e mutante.
Ancora più decisivo a intaccare quella maschera di razionalità algebrica è poi il contraccolpo che nasce dal colore, perché ognuno di quei miraggi luminosi è connotato da una tonalità dominante o da un contrasto di macchie cromatiche. Scomposto anche il colore nella miriade di particelle che lo compongono: ricetta che Carolina Lombardi ha appreso dalla sua lunga attività di restauratrice. Sono questi sbalzi a disegnare quel labirinto come un serbatoio di umori ed emozioni che emergono da dentro e impongono ritmo e verità alla mano che sta filando la tela.
Qualcosa di simile a quegli impulsi espressivi nei quali Maria Giuseppina Di Monte, direttrice del museo Andersen, rintraccia assonanze con la pittura di Pollock. A me vengono in mente piuttosto le trame segrete delle Vie dei Canti degli aborigeni australiani, quelle mappe costellate di presenze, incontri, agnizioni zoomorfe e numinose, che le donne delle varie tribù ripercorrono su arazzi e tappeti per raccontare la sacralità e i miti fondanti del proprio territorio, salvando la memoria di questa invisibile cosmogonia dall’estinzione.
Lì a dettare il copione è un misticismo irraggiungibile e il rischio è di dissipare questa carica ascetica in una produzione di merci da souvenir. A spingere Carolina Lombardi è invece un’impostazione più razionale, un’adesione mentale ai procedimenti e ai calcoli delle scienze che studiano la natura. E il rischio a cui la espone è di governare sin troppo questo approccio mimetico: stupire con l’abilità delle sue traduzioni formali ma non riuscire sempre a liberare la commozione.
Ma resta comunque coinvolgente la passione con cui si lancia lungo i sentieri che hanno sedotto e continuano a nutrire la sua immaginazione. L’ultimo è un esperimento che ha compiuto sulla melma policefala. Un organismo unicellulare mosso un un’intelligenza delocalizzata, che non ha sede in un cervello o in un sistema nervoso, ma è in grado di prendere decisioni, serbare memoria delle proprie azioni. Misurandone matematicamente gli anomali potenziali gli astrofisici ne hanno ricavato una mappa della grande Ragnatela cosmica che connette galassie, gas e materia oscura e dischiude ad altri ricercatori la messa a punto di tecnologie basate sull’autorganizzazione dei sistemi complessi.
Carolina Lombardi ne ha coltivato e alimentato un campione sottovetro, fotografando secondo dopo secondo le sue mutazioni, per poi rimontare quei movimenti di vita in sequenza e attraverso viraggi colorati. Ne è nato un breve fascinoso spettacolo di pochi minuti. Una piccola foresta di ramificazioni che cresce, si trasforma, si contrae e si espande, respira generando forme fascinose e inquietanti.