In margine al femminicidio
Anatema contro i (nuovi) maschi
Riflessione sui maschi e sui loro stili di vita: se, per esprimerti, non ti rimane altro che la violenza, è peggio per te. Se non hai acquisito i mezzi idonei ad amare una donna, la colpa è solo tua. Su questo, il perdono va bandito per sempre
Ho la sensazione che le analisi e i commenti spesi sull’ennesimo omicidio di una donna in Italia la stiano facendo un po’ facile. Parto dalle minime esperienze come quella di osservare il comportamento di donne e uomini portati a esercitare il loro controllo sul partner. Negli ultimi vent’anni avevo anche percepito una trasformazione non da poco: la gelosia e l’amore andavano mescolandosi quasi che l’una stesse a dimostrare l’altro. Tra gli adolescenti sono oggi le ragazze a mostrarsi più gelose. La loro è una forma di gelosia non violenta ma di certo dominante e cogente riguardo alla continuazione o meno della relazione. Inoltre il controllo del partner diventa implicito.
Nella coppia il controllante può essere donna o uomo, questo importa poco rispetto alla forza di reazione dei persecutori all’atto di essere rifiutati. Con poche eccezioni la donna, quand’è allontanata, si limita a soffrire e semmai a vendicarsi in modo sottile, talvolta riparando da amici e da conoscenti comuni. Per lei il rapporto sarà semplicemente finito lì. Per molti uomini invece il controllo della compagna è condizione dell’esperienza amorosa, della convivenza e del matrimonio. Per certo genere maschile l’incontrollabilità di lei non è né concepibile né sopportabile. Crolla tutto il castello. Ora, è evidente che in epoca di facile localizzazione, diventi un’impresa sfuggire al proprio persecutore. Egli è dappertutto e, attraverso i social, riesce a intercettare qualsiasi notizia riguardante l’altro, la sua vita quotidiana, le sue amicizie vecchie e nuove.
So di uomini che, non appena su facebook la loro compagna stringeva una nuova relazione di amicizia, subito si premuravano di diventare a loro volta amici della persona neo-eletta. Perché il persecutore vuole appunto controllare tutto, ed è quando questo suo potere di accertamento viene meno che egli esce di senno. A quel punto lo stalker può diventare affettivamente pericoloso. Può darsi che alla fine, oltre a far pesare la sua presenza come un macigno, egli non combini nulla di grave, ma può anche accadere che il suo rifiutare, non solo la chiusura di quella storia malata ma soprattutto la perdita di controllo e di supervisione della di lei esistenza, lo spinga con tutta la consapevolezza del caso a mutarsi in assassino. Come avvenuto per l’ennesimo mostro della cronaca, e come avverrà con il prossimo.
Ci si domanda quali siano le ragioni che impediscano alla donna di uscire in tutta fretta da una relazione tanto patologica. Ovvio che il quesito non abbia niente che fare con una diminuzione di responsabilità. C’è un assassino e c’è una vittima, questo è chiaro. Ci sono continuamente assassini e continuamente vittime, questo è altrettanto chiaro e disperante. Eppure occorre anche formulare delle cause concrete, che molti conoscono e che riguardano il dilagante fenomeno della codipendenza affettiva. Si parla come di un fatto scontato della dipendenza: un sistemino che ha origine dal dipendente che per primo la proponga e la applichi. Con il passare del tempo, questi trasmetterà in un modo subdolo, non disgiunto da componenti narcisistiche, i suoi bisogni di riconoscimento, di predominio, di potere… Dinanzi all’evidenza, una donna ben strutturata (ce ne sono meno di quanto si creda) dovrebbe chiudere immediatamente il rapporto, bannare l’insopportabile individuo da ogni forma di contatto e scomparire senza pietà. Per dimostrare tanta forza, la vittima dovrebbe comprendere che la sedicente dipendenza del suo uomo è profondamente aggressiva.
Del resto, se egli fosse dipendente e allo stesso tempo apertamente succubo, timido e insicuro (quanti ne vediamo…), la donna potrebbe immolarsi e dedicare l’intera vita al pover’uomo che si è messa accanto. Non le accadrà nulla, a parte il fatto che si romperà le palle tutta la vita. Ma allorché il dipendente si mostrerà per quel che è, un narcisista passivo aggressivo, incapace di mettere a fuoco il suo fallimento, egli sarà anche “bravo” a innescare una relazione gravemente patologica; la donna si adatterà a quel sistema e diventerà a sua volta dipendente del “dipendente”. In apparenza si chiuderebbe il cerchio, che finirà per rompersi a causa dell’intrusione abbastanza rischiosa di un terzo incomodo, che sia uno psicanalista, un uomo di fede, un poeta, un nuovo innamorato, il padre o l’amico del cuore… C’è ampia scelta, in effetti.
Ma ecco che il tarlo del dubbio si insinuerà nel controllante, a cui non sfugge più nulla dopo anni e anni dedicati alla vita e alla morte dell’altro, avvezzo com’è a setacciare, analizzare e giudicare ogni mossa con il metro della pericolosità. A quel punto il passivo aggressivo si toglie la prima maschera e si trasforma in ciò che è in potenza: un aggressivo malamente attivo. Da quel momento in poi la donna sarà in pericolo di vita. Sarà molto difficile arginare una situazione a tal punto degenerata, poiché servirebbe un intervento preventivo in grado di intercettare e di annullare il persecutore. Purtroppo per lei, nessuno se ne farà carico, giacché alcuna disposizione preventiva sarà mai in grado di bloccare seriamente, prima che agisca, colui che è divenuto un criminale a piede libero.
Tra le cose un po’ scontate che si sono dette, e probabilmente lo sono anche queste che sto scrivendo, ne ho letta una intelligente, di una critica d’arte. Ella ha scritto con risolutezza: “Mai andare all’ultimo incontro.” Mai, perché è probabile che quello sia un appuntamento con delle lesioni gravi o con la morte. D’altronde andarvi è la dimostrazione che, sino all’ultimo secondo, la codipendenza affettiva rimane attivata. Ora, la codipendenza affettiva può coinvolgere ciascuno di noi. Accade. Escludo che sia una patologia da cui si guarisca; gli psicanalisti sono figure professionali che per primi e per loro lealtà riconoscono l’impossibilità di curare qualsiasi forma di dipendenza.
Se ne può uscire, semmai, dopo aver dato un titolo verosimile al proprio rapporto. Insomma, che titolo ha la nostra storia d’amore? È veramente una vicenda romantica o è un film dell’orrore? È una storia in cui la parola progetto assume una sua verosimiglianza o altresì è la sconsiderata avventura tra una donna che ha sbagliato padre e non riconosce chi davvero sia quel succedaneo che le sta accanto facendone malissimo le veci? Perché non intitoliamo le nostre vite? Eppure dopo qualche pagina di un libro ci rendiamo conto se il suo titolo aderisce o meno al narrato. Che insomma tra testo e titolo vi sia una trama autentica e magari una storia d’amore. Personalmente provo un odio profondo verso gli uomini che fanno del male alle donne, e allo stesso tempo provo per loro una pena che si congiunge con il ribrezzo umano, giacché la debolezza e l’inferiorità maschili non giustificano in alcun modo un atto brutale. Se per esprimerti, non ti rimane altro che la violenza, è peggio per te. Se non hai acquisito i mezzi idonei ad amare una donna, la colpa è solo tua. Qui il perdono va bandito per sempre. Qui l’attenuante va dimenticata per sempre. E il carcere come percorso di redenzione va negato per sempre. Fine pena mai, perché chi ferisce o uccide un essere che giudica fisicamente più debole non deve rientrare dalla finestra; a me dei diritti umani di mostri e di assassini non importa nulla. E in ogni caso sul “prima le vittime” non transigo.
Penso vi siano vecchie ragioni sociali, culturali e di costume all’origine di questo sfascio insopportabile. Ho il sospetto che a partire dagli anni ’60 il maschio si sia dimostrato progressivamente inadatto ad affrontare la crescente consapevolezza del genere femminile. Si è trattato, per lui, di un’occasione persa, quella di riflettere sulla povertà sessuale e sensibile del suo genere. Se gli uomini fossero riusciti nell’impresa di arricchire anzitutto i loro corpi e di renderli per conseguenza, non dico all’altezza di quelli femminili ma un po’ più sensibili, un po’ meno lineari, verticali e così via… ebbene il loro patetico affidamento alle ragioni e ai bisogni del pene sarebbe diminuito visibilmente. Invece, per quanto sia incredibile, è avvenuto l’esatto contrario. L’uomo, da autentico cretino qual era, ha ritenuto che proprio dal pene dovesse ripartire ancor più esaltato nell’affrontare la donna nuova. E così ha creduto di liberarsi e di emanciparsi a sua volta attraverso un uso più disinvolto e più moderno di quel suo organo che, a esser buoni, aveva mantenuto l’intelligenza di prima. Al maschio è sfuggita una realtà forse crudele (ma neanche poi tanto), ossia che attraverso la sopraggiunta coscienza della sua forza, la donna avrebbe finalmente rivelato una verità perpetua: che a lei del sesso importa assai meno di quanto il praticarlo interessi all’uomo. Che ne fa uso, certamente, nella misura in cui vi sia una finalità e che vi partecipa nelle vesti di mamma paziente che sta giocando col suo bambino prima di metterlo a letto, che lo farà contento perché è stato buono o perché sarà buono; tutto qui. Non si può dire? È tutto qui lo stesso. Ma di fronte a questa scioccante (!) novità, l’uomo ha reagito nel modo più scellerato. Si è sentito offeso, negato, abbandonato… Insomma si è sentito tutto ciò che non doveva sentirsi, e invece di reagire da persona adeguata, partecipando su un piano di realtà a una vita erotica finalmente liberata dall’illusione del bisogno o del piacere senza freni, egli ha replicato nel solo modo possibile, vista la povertà della sua mente del suo cuore. Ha raccolto quella che stupidamente ha ritenuto essere una sfida. Con il tempo tutto è degenerato.
Finché c’era la Democrazia Cristiana, finché vigeva la plumbea chiusura della chiesa cattolica, fino a quella paolina e ipocrita degli anni ’70, tutto veniva nascosto sotto al tappeto. Ma quando è arrivato Silvio Berlusconi, allora è stata la catastrofe. Non morale, si badi bene, quella non mi interessa. La catastrofe era dovuta al fatto che Berlusconi era un omino del passato, un soggetto da retropalco che non aveva la minima idea di come fossero un animo femminile, un corpo femminile, un cuore femminile. Non aveva capito niente e perciò aveva messo in scena il suo mondo di veline e di attricette senza aver mai letto o studiato un rigo della grande letteratura erotica del ‘900 francese. Pierre Louys, Georges Bataille, Pierre Klossowski, André Breton, Louis Aragon… Niente. Berlusconi era lo zero assoluto in materia di erotismo, era un compiacente contemplatore del suo pene stesso, uno che ancora pensava che le donne fossero oggetti di una transazione stabilita in virtù di un potere politico, finanziario, economico. Cosa poteva saperne una persona a tal punto ignorante del passaggio dalla figura della prostituta a quella della “moneta vivente”, ovvero di colei che aveva valutato la portata della sua bellezza per governare il mondo dei sentimenti? Il Cavalier Lutto Nazionale non è stato naturalmente il solo a delirare; dietro di lui si sono succeduti epigoni e imitatori della più bassa specie. E a risentirne drammaticamente sono stati i giovani maschi delle ultime generazioni, coloro che non solo hanno smesso di leggere o di cercare i buoni film ma nemmeno dimostrano fantasia nel guardare un film porno, non distinguendo il personaggio dall’interprete e tutt’e due da loro stessi.
Questo loro analfabetismo erotico si sta sfogando sulla pelle delle meravigliose ragazze che sono le nostre figlie. Dobbiamo difenderle… e dir loro, senza rischiare di essere scorretti, che un prototipo maschile esiste ancora come via praticabile tra l’omosessualità e la violenza macista. Dobbiamo restare padri per render loro testimonianza delle figure maschili che hanno onorato il nostro genere stando accanto a donne come e più libere di loro. Dobbiamo raccontar loro di come donne e uomini si sono amate davvero. E dobbiamo rimanere forti ai loro occhi proprio per dare speranza ai loro cuori. E semmai aveste dei figli maschi un po’ scombussolatati e incerti, dite loro la verità: che il primato e il dominio del maschile sul femminile sono terminati da un pezzo. Grazie a Dio siamo finiti nelle retrovie, viviamo con grande disagio la femminile concentrazione, la sua comprensione del mondo e della realtà. Il tempo del dominio o della sottomissione quali alternative inevitabili è finito. La soluzione non è quella di recitare la parte dei fidanzatini senza parola e senza presenza ma quella di far capire alle vostre ragazze che anche voi sapete come sta girando il mondo, e che nemmeno a voi piace. Che quella differenza vi interessa. Io sono, tu sei. E liberi tutti di andare e venire. E di imparare a memoria questi pochi versi di Amelia Rosselli:
… se per le strade che conducono al paradiso io perdo la
tua bellezza: se per i canili ed i vescovadi del prato
della grande città io cerco la tua ombra: – se per tutto
questo io cerco ancora e ancora: – non è per la tua fierezza,
non è per la mia povertà: – è per il tuo sorriso obliquo
è per la tua maniera di amare.
Il titolo di quella sua poesia, Amelia lo aveva ben trovato: Se non è noia, è amore.