Diario di una spettatrice
Una poesia dalla Mongolia di cui abbiamo bisogno
"L’ultima luna di settembre" di Amarsaikhan Baljinnyam è la bella storia di un uomo senza padre e di un ragazzino che cerca in lui il padre che non ha
La poesia della Mongolia non cambierà il mondo, come non lo cambieranno le poesie di Patrizia Cavalli. Ma mai come in questi tempi bui di poesia ne abbiamo assoluto bisogno. Perciò raccomando la visione del film di (e con) Amarsaikhan Baljinnyam L’ultima luna di settembre, che rappresenterà la Mongolia nella corsa agli Oscar per il migliore film internazionale. Che la Mongolia appartenga a un altro pianeta lo si capisce già nella prima scena: per fare una telefonata un tizio sale in cima a una collina, monta precariamente in piedi sulla schiena del suo cavallo e colloca il cellulare alla fine di una lunga pertica, tutto questo per poter telefonare. Ma è una telefonata importante perché si tratta di avvisare Tulgaa che vive in città (suppongo la capitale Ulàn Bàtor visto che dirige un hotel cinque stelle) che suo padre sta morendo. Tulgaa monta su uno sgangherato pulmino e arriva alla jurta paterna in mezzo a un assoluto niente, l’orizzonte immenso e vuoto della Mongolia dove il vicino di casa sta ad almeno 20 chilometri. Impossibile immaginare uno scenario più agli antipodi del nostro.
Eppure è in questo niente ai confini del mondo e della povertà che nasce la poesia di un uomo senza padre e di un ragazzino che cerca in lui il padre che non ha. L’incontro fra Tulgaa e il piccolo Tuntuulei, lasciato ai nonni dalla madre che lavora in città, è prima burrascoso, poi sempre più complice: l’uomo decide di mantenere l’impegno paterno di falciare il fieno per il bestiame prima che sorga l’ultima luna di settembre, una sfida per lui cittadino da anni, in realtà la ricerca delle sue radici di bambino adottato. Anche Tuntuulei non conosce suo padre e quell’uomo gentile gli fa intravedere nei brevi giorni della falciatura la famiglia che non ha.
Amarsaikhan Baljinnyam firma doppiamente questa sua opera prima, da regista e da protagonista, meritandosi la corsa agli Oscar. E il risultato è un miracolo che intenerisce lo spettatore per la leggerezza dello sguardo che ci accompagna in questa storia, per i panorami immensi e ipnotici della Mongolia, per le scene in cui l’uomo e il bambino galoppano fianco a fianco nel vento. La poesia sta nella scoperta che un altro mondo è possibile, pure così lontano ed estraneo a noi.