Periscopio (globale)
Pepe Montalbán
Vent'anni fa moriva Manuel Vázquez Montalbán, grande scrittore catalano, sospeso tra malinconia e ironia, assurto a simbolo della Spagna tornata libera
Di solito non amo le cene letterarie e men che meno le commemorazioni, e faccio del mio meglio per non parteciparvi. Con qualche eccezione: come quella a cui mi capitò di prender parte poco meno di vent’anni fa, in onore – e purtroppo anche già in memoria – di uno scrittore all’epoca assai popolare e amatissimo dagli spagnoli, e non solo. Cena ad alto tasso culturale e condita peraltro da una forte dose di malinconica ironia, come presumevamo sarebbe piaciuto al festeggiato. Sto parlando di Manuel Vázquez Montalbán, che ci ha lasciati il 17 ottobre 2003 all’aeroporto di Bangkok, per un infarto occorso mentre era in viaggio, e di cui ricorre quindi proprio oggi il ventennale della morte.
Per la comunità letteraria Montalbán non è stato unicamente un autore poliedrico e fantasioso, ma per tutta una serie di coincidenze, anche temporali, è assurto a simbolo e interprete privilegiato di una Spagna finalmente liberata dalla stretta brutale del franchismo, in transizione verso la democrazia e la piena integrazione nel continente europeo e nelle sue istituzioni. Con il suo personaggio principale, il detective Pepe Carvalho, Montalbán è stato fra i più acuti testimoni di questa difficile transizione, fra entusiasmi e disinganni, fra illusioni e bruschi ritorni alla realtà. Di fronte tanto alla storia generale, quanto a quella specifica del suo paese, ha saputo assumere una postura di osservazione attenta e partecipe, prendendo posizione quando gli è parso necessario, ma il più delle volte analizzando i fatti con quell’ironico distacco che permette di non esserne sopraffatti. E con una vastità d’interessi che si rispecchia nella parallela vastità dei generi frequentati: dal saggio politico al giornalismo, dalla poesia, che percorre sotterraneamente (nel segno dell’amato Eliot) tutta la sua opera, al romanzo mainstreaming, dal poliziesco ai libri di cucina, con qualche incursione nel teatro e nei libretti d’opera (niente meno che in collaborazione con Salvador Dalì), ma anche nella canzone quale esempio primigenio di cultura popolare.
La sua preoccupazione è stata duplice: prefigurare, da visionario e utopista, il futuro, ma al tempo stesso ancorarlo al passato, un passato che non deve mai essere dimenticato ma va anzi ricostruito con la maggiore ricchezza di dettagli possibile. Perché per Montalbán era solo grazie a un’attenta disamina del passato che si poteva capire appieno la potenza catartica del risveglio spagnolo, come pure il rischio che i settori più marginalizzati della società continuassero a esserlo, com’è poi puntualmente avvenuto nonostante la caduta del regime e l’avvento di una peraltro sempre fragile democrazia.
Come per tutti, anche per Montalbán occorre partire dalle radici. Nasce in un anno particolarmente difficile e drammatico, il 1939, per l’esattezza il 14 giugno, in una famiglia di immigrati a Barcellona, provenienti il padre dalla Galizia, la madre da un villaggio nei pressi di Murcia. Il padre, Evaristo Vázquez, è un operaio che non può permettersi molto di più di una modesta abitazione nel Barrio chino, il quartiere più popolare di Barcellona, dove viveva il proletariato industriale, e in particolare i lavoratori del settore navale. Scappato in Francia al momento della caduta della città in mano al franchismo, rientra dall’esilio proprio nell’estate del 1939 ed è subito arrestato e condannato a morte, pena poi commutata a vent’anni di reclusione. Evaristo ne sconterà cinque, e sarà solo all’uscita dal carcere che conoscerà il figlio.
Questi primi anni senza padre, e quelli che seguiranno, grosso modo i primi vent’anni della sua vita, saranno al centro del tentativo dello scrittore catalano di ricostruire, nei suoi libri, il passato della nazione, compresi gli orrori che erano stati perpetrati in precedenza, durante la Guerra civile. Vent’anni in cui, grazie ai sacrifici dei genitori, non solo Montalbán va a scuola, ma approda agli studi universitari, cosa che lo farà sempre sentire un privilegiato; e vent’anni in cui matura, nel periodo più repressivo del regime franchista, una consapevolezza politica che lo trasforma presto in un militante clandestino, tanto da essere lui stesso condannato nel 1962 da un consiglio di guerra, assieme alla moglie Anna Sallés Bonastre, a tre anni di carcere, per aver partecipato a uno sciopero di sostegno ai minatori delle Asturie. Di questi tre anni sconterà, nel carcere di Lérida, diciotto mesi; il resto gli sarà risparmiato grazie a un indulto a seguito della morte di papa Giovanni XXIII. Le vie del Signore sono davvero infinite.
La giovinezza nel Barrio chino è fondamentale anche perché lo espone a un forte meticciato culturale e umano, destando in lui l’interesse e la volontà di scandagliare la società che lo circondava. Non è un caso che le sue prime prove letterarie siano costituite da una serie di articoli per la rivista Triunfo, con cui nel 1969 cerca di dar conto della cultura popolare del dopoguerra in Spagna. Gli articoli saranno poi raccolti in un libro, con il titolo complessivo di Crónica sentimental de España, ma soprattutto avranno la funzione e l’effetto, se non di renderlo famoso, almeno di attirare su di lui quasi da un giorno all’altro l’attenzione degli ambienti culturali.
Se in quegli anni di Montalbán escono su giornali e riviste molti saggi e interventi, trasformandolo gradualmente in un personaggio popolare e ascoltato, la prima comparsa del suo protagonista assoluto, Carvalho, risale al 1972, nel romanzo Yo maté a Kennedy (Ho ammazzato J. F. Kennedy); ma in quel momento Montalbán non si rende ancora conto delle potenzialità della figura che ha creato, un investigatore privato dalla personalità contraddittoria, ex comunista e membro della Resistenza, ma anche ex agente della CIA e guardia del corpo di Kennedy. Il suo personaggio è qui annegato fra altri in una scrittura ancora sperimentale, che fa il verso al romanzo di spionaggio, con qualche tratto quasi fantascientifico.
Carvalho ritorna però prepotentemente – e con lui la fidanzata Charo e il fidato assistente Biscúter – nel lungo ciclo di romanzi che Montalbán pubblicherà nei decenni seguenti, da Tatuaje (Tatuaggio), che è del 1974, a Milenio Carvalho (Millennio), pubblicato postumo trent’anni dopo, con in mezzo qualche successo assoluto di critica e di pubblico, fra cui vanno ricordati almeno La soledad del manager (La solitudine del manager), del 1977, primo suo libro a uscire per un grande editore come Planeta, e Los mares del Sur (I mari del Sud), del 1979, che gli diede la notorietà in Francia, dove fu pubblicato da Gallimard, e poi in tutta Europa, e che oltre al Premio Planeta ottenne anche il Premio internazionale per la letteratura poliziesca. Non li citerò qui tutti; i romanzi con Carvalho protagonista sono una dozzina, e ad essi si aggiungono numerosi racconti. Vorrei ricordare invece, e non troppo en passant, la traduttrice italiana di tutti i suoi libri, Hado Lyria, in realtà Myriam Sumbulovich, di madre catalana e padre ebreo sefardita di Sarajevo, vissuta in Italia per più di sessant’anni e morta a Milano l’anno scorso, dopo aver tradotto e presentato in Italia, oltre a Montalbán, anche altri autori di notevole rilevanza come Marsé, Monterroso e Savater. Nella postfazione al Pianista, pubblicato da Sellerio (gran parte degli altri libri sono usciti in Italia per Feltrinelli), la Lyria mostra anche notevoli doti interpretative quando conclude che “Vázquez Montalbán ci indica una possibile formula, contemporanea e dubbiosa, di romanzo impegnato. Impegno come affaticata speranza.” (Il corsivo è dell’autrice.) Devo riconoscere che è una delle approssimazioni interpretative più rigorose (e sintetiche) intorno al nostro autore in cui mi sia imbattuto.
È una novela negra, quella di Montalbán, molto più vicina ai romanzi hard boiled di Hammett e Chandler che ai gialli della tradizione anglosassone (à la Agatha Christie, per intenderci). Montalbán si avvale quindi di una formula collaudata, a partire dal racconto in terza persona fatto da un narratore onnisciente, che accoglie pienamente, senza più preoccuparsi di sperimentalismi e innovazioni, per sottoporla però a infinite variazioni nei diversi romanzi. Per il suo autore Carvalho diventa un personaggio-feticcio, il grande osservatore agli occhi del quale si svelano i significati di un mondo, quello degli anni Sessanta e Settanta, in via di rapida trasformazione, in un paese che passa dall’oppressione della dittatura a una liberazione generalizzata, tanto in campo politico, quanto nell’ambito dei costumi. Al di là dei casi che è chiamato a risolvere, Carvalho indaga in primis sulla realtà che lo circonda, partendo dai fatti di cronaca, ma per leggerli a livello sociopolitico, come spie di malesseri generazionali; analizza questa stessa realtà, la tritura, la scandaglia, cerca di stabilire legami e collegamenti inconsueti e mai banali tra una vicenda e l’altra. Come il suo autore, è di origine galiziana, e nel corso delle sue indagini non esita, se necessario, a spostarsi da Barcellona; eppure, al tempo stesso la capitale catalana assurge a centro e paradigma del mondo. L’immagine della città è quanto di più ambiguo e instabile si possa immaginare: sembra costruita su sabbie mobili, stretta nelle spire di un crimine economico tollerato e in qualche caso promosso dalle autorità politiche, preda di una speculazione edilizia che la costringe a svilupparsi in altezza. È anche, ovviamente, uno spazio simbolico: non è difficile notare come l’attività d’investigazione di Carvalho si svolga nella parte bassa e popolare della città, intorno alle Ramblas, mentre lo stesso Carvalho, la sua fidanzata (nonché prostituta) Charo, l’amico Fuster ma anche gran parte degli indagati – quando l’investigazione punta decisa verso le alte sfere della società – vivono invece nella parte più elevata della città, in particolare nell’elegante quartiere di Vallvidrera. In ogni caso, la città nella sua interezza, con il suo insopprimibile deterioramento, è espressione di una realtà aborrita, in cui non è difficile profetizzare l’ulteriore peggioramento delle condizioni di vita di una massa amorfa e sempre più privata di una coscienza collettiva, di una reale identità. In questo senso, il modo di descrivere Barcellona non differisce troppo dal trattamento che per esempio Jean-Claude Izzo e il suo protagonista Fabio Montale riservano a Marsiglia, altra città portuale, o al quale prima ancora erano state sottoposte San Francisco o Los Angeles per le indagini rispettivamente di Sam Spade e Philip Marlowe.
Di Carvalho diventano proverbiali certi atteggiamenti iconoclasti, come l’abitudine di bruciare i libri nel caminetto in qualunque stagione: un atto che suscita immediato orrore in chiunque ami i libri, ma che Carvalho motiva elegantemente facendo notare che non se la prende in modo indiscriminato con tutti i volumi della sua biblioteca, ma solo con quelli che non gli hanno insegnato nulla e sono quindi inutili. Lungi dal voler semplicemente infrangere un tabù, Carvalho intende proprio castigare, come scrive già nel primo romanzo della serie, Tatuaggio, “le verità inutili che riuniva” attraverso i libri. Non è il primo, del resto: dal Calibano shakespeariano al Nero Wolfe di Rex Stout, senza dimenticare i roghi di libri nel Don Chisciotte o in Fahrenheit 451, la tentazione di liberarsi del libro (e delle sue ingannevoli verità) bruciandolo è un filo rosso che percorre la letteratura di tutti i tempi. A caratterizzare Carvalho è semmai il fatto che la scelta dei libri corrisponde alle sue idiosincrasie e a quelle che considera poco più che mode letterarie – brucia infatti le opere complete di Borges nonché i principali romanzi di Osvaldo Soriano e di Leopoldo Marechal, o ancora saggi di gran voga in quegli anni, e tuttora letti alacremente, come Il saccheggio dell’America Latina di Eduardo Galeano.
Inoltre, per lui bruciare un libro è anche un atto utilitaristico, in quanto serve a favorire un’altra delle sue attività preferite. Il camino in cui i volumi finiscono può servire infatti non solo a riscaldare l’ambiente, ma altresì a cucinare e arrostire. E proverbiale è anche l’amore, che Carvalho ancora una volta condivide con il suo autore, per la gastronomia, dove è sapientemente coadiuvato dall’assistente Biscúter nel farsi beffe delle mode più recenti e nel difendere una cucina tradizionale e sapida, con i piedi ben piantati in quello che oggi si definirebbe il territorio. Carvalho, per il quale la buona cucina è indubbiamente arte, milita insomma a favore di una gastronomia sapiente e artigianale, così come milita per l’artigianato e il lavoro di precisione e contro l’industrializzazione sfrenata in tutti gli ambiti. (Fra parentesi, il nome dell’assistente, Biscúter, deriva da un’utilitaria assai economica in voga nell’immediato dopoguerra, e la sua personalità è stata costruita intorno a quella di un piccolo lestofante, ladro di automobili, appunto, che Montalbán aveva incontrato in carcere. Allo stesso mondo appartiene anche un altro personaggio di contorno, Bromuro, la cui ideologia fascista e xenofoba consente all’autore di sfruttare al meglio qualche dettaglio di realismo ironico.)
Con il passare degli anni – e dei libri – Montalbán introduce gradualmente delle modifiche che corrispondono all’invecchiamento dei personaggi: in una delle avventure Bromuro muore, tanto per cominciare, ma, soprattutto a partire dal Quinteto de Buenos Aires (Quintetto di Buenos Aires), del 1997, anche la personalità di Carvalho, nei primi libri così corrosiva e talora insolente, comincia ad adeguarsi ai tempi, a farsi più malinconica, meno graffiante. Il suo scetticismo inveterato si trasforma in una tendenza alla passività, e quel che rimaneva dei suoi principi in disincanto assoluto.
Man mano che il tempo trascorre, Montalbán si rende anche conto – com’è successo mutatis mutandis anche a Camilleri, che proprio dall’autore catalano ha fra l’altro mutuato il nome del suo commissario – di dover sfuggire al proprio personaggio e di doversi dedicare a progetti di altro genere, se possibile perfino di maggior impegno compositivo. Va quindi ricordata in questo contesto la produzione “altra”, e principalmente i tre romanzi incentrati – ancor più del ciclo di Carvalho – sul recupero della memoria storica in Spagna e America latina: si tratta di El pianista (Il pianista), del 1985, di Galíndez, del 1990, romanzo che fa letteralmente incetta di premi, e della Autobiografía del general Franco (Io, Franco) del 1992. Non abbiamo qui lo spazio per esaminarli con maggior cura, ma a essi Montalbán teneva forse persino di più che non al ciclo di Carvalho.
Tornando a quanto dicevamo dell’amore per la cucina, un altro tesoro dell’opera di Montalbán nel quale bisognerebbe trovare il tempo (e sviluppare soprattutto le capacità) di tuffarsi è il suo contributo alla gastronomia, prime fra tutte le sue Recetas inmorales (Ricette immorali), come le definisce nel titolo di uno dei suoi libri più fortunati in materia. A queste ricette, condite di aneddoti, divagazioni e prese di posizione etiche, è sottesa, ancora una volta, una filosofia della liberazione, o il “pretesto per una situazione liberatoria”, come lui stesso la definisce. Si tratta insomma di aiutare l’uomo a mangiare bene per migliorarne la vita e la socialità. Perché anche la cucina, come la letteratura, è anzitutto un atto sociale, di comunicazione e di comunione, e diventa pertanto un atto politico.
Nell’insieme Montalbán è stato estremamente prolifico, tanto come scrittore quanto come giornalista e saggista; perfino febbrile, come se avesse sempre saputo che la sua vita non sarebbe stata lunghissima e il tempo a disposizione, di conseguenza, insufficiente. Ha fatto del suo meglio per lasciarci, malgrado questa limitazione temporale, un patrimonio di scritti che sarebbe davvero un peccato consegnare all’oblio. Se è vero che la Spagna e la Barcellona di cui parlava non sono già più del tutto attuali – i cambiamenti si sono prodotti ovunque a una velocità folle –, è altrettanto vero che dalle opere di certi scrittori emerge un’attualità per così dire di secondo grado. Un’attualità, cioè, che non si lascia smontare dai mutamenti sociali e di costume, per rapidi che siano, ma sopravvive nella qualità della pagina, nella vivacità dell’espressione e soprattutto nell’acume dello sguardo di chi sa leggere, scrivere e rendere testimonianza.