I deliri del bibliofilo
L’editoria libera di Anita Pittoni
Con le Edizioni dello Zibaldone contribuì a valorizzare la cultura triestina del tempo. Tra i preziosi volumi pubblicati, “Uccelli” (1950, un volumetto di poesie), e “Quello che resta da fare ai poeti” (1959, una raccolta di prose giovanili) di Umberto Saba
«Da 13 anni lo Zibaldone vive sulle mie spalle, ma prima avevo mio fratello che mi passava un tanto al mese e con la posizione che aveva, anche se spendevo tutto quel poco che ho e vendevo la mia roba per tirare avanti lo Zibaldone, non mi davo pensiero per il giorno in cui avrei avuto bisogno di aiuto per vivere. E poi avevo i pasti assicurati… Insomma, cara Linuccia, io ho sgobbato tutta la vita come un facchino, sempre presa da compiti per l’uno o l’altro ideale, e mi trovo alla mia età senza posizione, senza un provento, né la stima che tutti mi cantano di avere per me mi può aiutare, neanche moralmente, credimi. Ho bisogno di affetto! E la città è dura. Ho bisogno di essere aiutata materialmente e non sono capaci di farlo». In queste emblematiche parole scritte da Anita Pittoni il 9 giugno 1962 a Linuccia Saba si avverte tangibilmente l’amarezza che le ha ispirate e il rancore nutrito nei confronti di una città talmente «dura» da non riuscire a ripagare adeguatamente – neppure dopo la sua scomparsa – l’operato di questa donna volitiva ed energica che aveva contribuito a valorizzare, come nessun altro, la cultura triestina del tempo. Per gran parte della sua esistenza Anita Pittoni aveva perseguito, tramite la sua opera multiforme e disinteressata, quest’idea alta e artigianale dell’editoria, non legata a compromessi di sorta con un’industria culturale che, sempre più, tendeva a spadroneggiare, mettendo a repentaglio l’esistenza stessa dei piccoli editori.
I suoi volumetti avevano una loro cerchia ristretta ma affezionata di lettori, spesso prestigiosi. Sia i libri che i notiziari che stampava, periodicamente approdavano in parecchi paesi stranieri, dalla Germania agli Stati Uniti, dalla Francia all’Inghilterra, dalla Svezia alla Jugoslavia. Risulta perciò sorprendente come una mole di lavoro di tal genere potesse pesare esclusivamente sulle sue spalle. Alla Pittoni spettavano infatti tutti i compiti che una casa editrice, anche se piccola, destina a figure che hanno mansioni diverse, come trapela dalla lettera scritta a John Vernon l’11 luglio 1951: «Non avendo mezzi, faccio tutti i più umili lavori da me, come attaccar 2000 francobolli sulle circolari che mandiamo in giro all’uscita di ogni libro, scrivere 2000 indirizzi, fare i pacchetti, portarli alla posta, ecc. ecc. D’altro canto lo Zibaldone si doveva fare, e la sgobbona di ruolo in questi anni a Trieste sono io».
Le Edizioni dello Zibaldone non potevano che nascere a Trieste, e precisamente al n. 1 della centralissima via Cassa di Risparmio, a due passi dalla Borsa, in una casa cui si accedeva da una piccola scala a chiocciola: l’abitazione che Anita Pittoni condivideva con il compagno Giani Stuparich, dove si svolgevano sin dal 1941 i celebri incontri letterari – dapprima di sabato, poi di martedì – che coinvolgevano le figure più rappresentative dell’intellighenzia triestina, da Giotti a Saba allo stesso Stuparich. «Si beve un buon bicchiere di vino: i fiasconi stanno sulla tavola, bicchieri ordinari, tutto semplice, essenziale, la mia non è una casa, ma un luogo di lavoro: così è sempre stato. E proprio per questo Stuparich e Giotti e tutti si trovavano a loro agio. […] Qui si va dritti allo scopo eliminando ogni odorino salottiero. Tanto è vero che non ci sono che uomini. Sì, ci sono io. Ma una donna che convogliaci vuole» scrive la stessa Pittoni a Luciano Foà il 7 aprile 1965.
E proprio nell’abitazione di via Cassa di Risparmio nascerà il progetto di fondare una piccola casa editrice che potesse contribuire sia a diffondere testi di autori locali spesso ignorati dalla grande editoria, sia a riproporre opere di carattere letterario, storico o politico che avessero avuto una particolare rilevanza nel passato prossimo della città. In questa impresa la Pittoni era coadiuvata e sostenuta, oltre dai già citati Stuparich, Saba e Giotti, anche dal giovane poeta Luciano Budigna (di cui pubblicherà la raccolta intitolata Assedio nel 1949, secondo titolo dello Zibaldone, dopo le Memorie di Giovanni Guglielmo Sartorio, edito nello stesso anno) e da Pier Antonio Quarantotti Gambini (il cui nome veniva affettuosamente abbreviato in «48i»).
Nel particolare clima che Trieste vive nell’immediato dopoguerra, con la città divisa, sotto il diretto controllo del Governo Militare Alleato, in due tronconi – Zona A e Zona B –, Anita Pittoni riscopre le sue radici “giuliane”. In uno dei bollettini stampati nel 1955 scrive: «E noi – un esiguo gruppo di amici senza soldi, ma forti dell’approvazione dei nostri maggiori letterati – pensammo (guarda un po’) di metterci a pubblicare libri, e mica libri commerciali! libri di cultura, di cultura giuliana…». Nel ’61 si soffermò più dettagliatamente intorno al progetto della sua casa editrice: «D’improvviso – almeno così mi parve, perché certo tutto s’era maturato in me naturalmente, nel clima nel quale vivevo – d’improvviso ebbi l’idea chiara di ciò che si poteva, si doveva salvare in tanto caos: la cultura; quella particolare cultura delle nostre terre così poco e così male conosciute; a questo scopo non c’era niente di meglio da fare, niente di più convincente e concreto, che pubblicare e diffondere opere d’ogni tempo che, nella varietà degli argomenti, potessero dare un quadro oggettivo della fisionomia delle terre giulie ex austriache: contrapporre a tanto disordine l’ordine della cultura, a tante menzogne la verità dei documenti».
Tra il 1949 e il 1971 uscirono dunque trentatre libretti, più un fuori collana e sette numeri dell’“Armonica” (fascicoletti rilegati appunto “ad armonica”, come si usava sotto la dominazione austriaca). A questi si devono aggiungere tre successive pubblicazioni: un altro titolo fuori collana e due stampati in collaborazione con Marino Bolaffio. Le tirature erano estremamente ridotte: 350, 500, 700 copie. In ogni esemplare dei primi volumetti figurava, generalmente nell’antifrontespizio, sotto l’indicazione relativa alla tiratura, l’elegante marchio della casa editrice, manoscritto dalla stessa Pittoni: “Zbe”. Lo stesso logo, contornato da un cerchio, era stampato anche in quarta di copertina. Il progetto grafico dei libriccini, tutti dello stesso formato di cm 12,5 x 17,5 circa, era della stessa Pittoni che, durante gli anni della giovinezza, si era particolarmente segnalata per la sua attività di stilista e di arredatrice in importanti manifestazioni italiane e internazionali, tra cui alcune Biennali veneziane (disegnò, oltre ad abiti, pannelli murali e stoffe d’arredamento – da lei definiti ironicamente strazeti –, anche costumi teatrali come per L’opera da tre soldi di Brecht, allestita da Anton Giulio Bragaglia a Milano nel 1930 con il titolo La veglia dei lestofanti).
I libri dello Zibaldone sono contrassegnati da una grafica sobria ed elegante: la copertina, a parte qualche rara eccezione, non è figurata e presenta un colore di sottofondo che varia dal rosa al grigio, dall’azzurro al violetto, sopra cui si stagliano nome dell’autore e titolo evidenziati in caratteri cromatici differenti rispetto alla tonalità della copertina stessa. Le serie delle pubblicazioni furono tre: la “Prima serie” composta di 19 volumi, la “Seconda serie” di 6 e la “Nuova collana” in cui uscirono 8 libri. Vi confluirono titoli di Svevo, Stuparich, Giotti, della stessa Pittoni, nonché Il magico taccuino del pittore Vito Timmel. I due libri più conosciuti sono quelli di Umberto Saba, pubblicati rispettivamente nel 1950 e nel 1959: Uccelli e Quello che resta da fare ai poeti. Un volumetto di poesie e uno di prose giovanili, particolarmente ricercati e apprezzati sul mercato antiquario. L’edizione di Uccelli è impreziosita da un ritratto a matita dell’autore, eseguito nel 1929 da Vittorio Bolaffio. La tiratura è di 350 copie numerate, 25 ad personam, 10 su carta azzurra. Tutti gli esemplari recano la firma del poeta. Si può tuttora trovare qualche esemplare della tiratura ordinaria al prezzo di 250 euro. Nel libriccino intitolato Caro Saba (Biblioteca Civica di Trieste, 1977), la stessa Pittoni riporta vari divertenti aneddoti intorno alla genesi e alla pubblicazione di questa raccolta. Saba infatti, dopo aver “ingolosito” la Pittoni proponendole di includere qualche suo scritto inedito nello Zibaldone, dapprima si ritirò, poi pretese come compenso 35 mila lire per undici poesie, peraltro già pubblicate in un numero della rivista “Botteghe Oscure”. Al che la Pittoni rispose che il poeta doveva almeno impegnarsi a stilare un’introduzione da premettere alla raccolta, dopodiché l’accordo sarebbe diventato operativo. La testimonianza della Pittoni termina in questo modo: «Quando venne a firmare i 350 esemplari, seduto davanti al mio lungo tavolo di lavoro, lo guardavo con tenerezza. Stavo accanto a lui in piedi per preparargli di volta in volta il libro aperto da firmare. A un dato punto Saba si volge, alza il viso verso di me, mi guarda con quei suoi occhi di cielo e mi chiede con voce dolorosa: “Ti sa cossa che significa questa riga soto la firma?”, Per le mie modeste cognizioni di grafologia quella riga dritta, ferma, significava sicurezza di sé, ma risposi: “No, Saba, no so. Cossa vol dir…?”. Rispose, ed era il lamento di un fanciullo: “Vol dir… bisògno de apògio…”, e continuò paziente a firmare. Caro Saba! come non volergli bene!».