Al Museo in Trastevere di Roma
Il lampo di Halsman
Una grande mostra monografica rende omaggio a Philippe Halsman, uno dei maestri della fotografia del Novecento. Per lui, lo scatto era un modo per entrare quasi nell'inconscio dei personaggi ritratti. O nel segreto profondo della cose
Lampo di genio, mai titolo fu più azzeccato per chi, come fotografo, del lampo di luce, ne ha fatto uno strumento di creatività e non un semplice ausilio per sopperire alla scarsa luminosità della scena, elevando quella che doveva essere una luce ausiliaria a strumento emblematico e cifra stilistica di buona parte della propria produzione artistica. Il flash, come si sa, ha la capacità di illuminare intensamente il soggetto su cui è diretto, riducendo il tempo di esposizione della fotografia nell’ordine di millesimi di secondo riuscendo così a congelare il movimento di persone e personaggi che, rimanendo fissati nella fotografia in pose inconsuete se non addirittura innaturali, con i volti che esprimono lo humor, l’ironia e la sorpresa, consente di far cadere loro la maschera e di rivelarne forse la vera identità.
Stiamo parlando del lampo di genio artistico di Philippe Halsman, le cui fotografie sono in mostra al Museo in Trastevere fino al 7 gennaio 2024.
Philippe Halsman nacque a Riga, in Lettonia, allora sotto l’impero russo, nel 1906 da una famiglia ebrea. Il padre Morduch era un dentista e la madre Ita Grintuch era la preside di un istituto scolastico. Philippe, dopo le scuole superiori, iniziò gli studi di ingegneria elettrica a Dresda, in Germania.
Un equivoco giudiziario creò uno spartiacque nella vita di Halsman: a ventidue anni fu accusato di parricidio durante un viaggio in Tirolo, dove il padre perse la vita cadendo in una scarpata. Il Tirolo era, sul finire degli Anni Venti, una zona fortemente antisemita e su Philippe Halsman piovvero insinuazioni gravi, derivanti da prove circostanziali, così da determinarne una condanna a quattro anni di prigione.
Grazie agli interventi di importanti personalità, alcune delle quali rispondevano ai nomi di Sigmund Freud, Albert Einstein, Thomas Mann, Erich Fromm, etc., la pena gli venne ridotta a due anni e nel 1930, Philippe Halsman fu rilasciato.
A conclusione della devastante esperienza austriaca, Philippe Halsman scelse di vivere in Francia e a Parigi iniziò a collaborare con le riviste di moda, Vogue, VU e Voilà. Aprirà una camera oscura a Montparnasse e nel giro di pochi anni sarà tra i più importanti ritrattisti della allora nascente fashion photography, soprattutto per la scelta tecnica ed espressiva di realizzare immagini nitide distinguendosi dall’allora imperante moda del soft focus.
Con il proseguire della guerra e la conseguente invasione tedesca, Philippe Halsman si rifugiò prima nel sud della Francia e successivamente negli Stati Uniti, grazie all’aiuto dell’amico di famiglia, Albert Einstein, che fotograferà nel 1947 a Princeton. Nel 1951 tornerà in Europa dove fotograferà Churchill, Brigitte Bardot, Anna Magnani, Chagall, Sartre e la sua fama si espanse talmente tanto che David Seymur gli propose di entrare a far parte della Magnum. Proseguirà la sua attività collaborando con la rivista LIFE per la quale firmò 101 copertine.
Affiancò all’attività di ritrattista quella dell’insegnamento e dal 1971 al 1976 terrà il corso di “Ritrattistica Psicologica” presso la New School di New York. Numerose furono le collaborazioni con istituzioni per le quali si occupò della curatela di importanti mostre. Morì a New York il 25 giugno del 1979.
Halsman fotografò le più grandi personalità del suo tempo e nelle cento fotografie esposte al Museo in Trastevere, che in questa prima retrospettiva italiana rappresentano un importante e significativo campionario del suo vasto archivio, i curatori hanno voluto tenere fede alle intenzioni del fotografo, ovvero cercare, foto dopo foto, di oltrepassare una sorta di maschera pubblica per arrivare a qualcosa di più intimo e di più vero, sia per quanto riguarda la singola foto e la sua collocazione in relazione alle altre, sia nel complesso dell’intera mostra. Ricordiamo le parole di Halsman stesso: “Il risultato finale è un’altra superficie da penetrare, questa volta grazie alla sensibilità di chi guarda. Spetta infatti a lui decifrare l’inafferrabile equazione tra il foglio di carta fotografica e la profondità dell’essere umano”. Di fatto un gioco visivo in cui entrano in campo il fotografo, il fotografato, il fruitore ed in questo caso anche i curatori: Alessandra Mauro di Contrasto in collaborazione con il Philippe Halsman Archive di New York.
La mostra è divisa in sezioni precedute da pannelli esplicativi che introducono i capitoli fotografici: Gli anni di Parigi, L’arrivo a New York, Il ritratto psicologico, Albert Einstein, Salvator Dalì, In Sequenza, Marilyn Monroe, In coppia, Il colore, Jumpology.
In ogni sezione vediamo che Philippe Halsman sperimentò nuove tecniche per nuovi linguaggi. La fotografia non fu, per lui, uno strumento riproduttivo, ma interpretativo e nelle foto esposte si va dal ritratto diretto con i neri profondi della Magnani o a quello di Einstein alle complesse elaborazioni, sia in fase di ripresa che in camera oscura, soprattutto per quanto concerne le fotografie di Dalì, col quale ebbe una lunga frequentazione. Halsman stimolato dal quadro di Dalì Leda atomica, ebbe l’idea di allestire lo studio fotografico per realizzare Dalì Atomicus che è una fotografia dove tutto è sospeso, tutto è in volo e che, per la realizzazione della quale furono necessari 26 scatti, 26 lanci di oggetti, 26 catture del gatto, 26 puliture dello studio.
Una delle sezioni più interessanti dell’intera mostra è quella di Jumpology dove sono ritratti personaggi ai quali è richiesto di saltare durante lo scatto della fotografia. Jumpology è un estratto del libro Jump book del 1959 dove il saltare non è un gioco, ma un espediente per approfondire i suoi ritratti psicologici. “Il salto permette un momento di sospensione in cui la mente si rilassa, la concentrazione si sposta sulla possibilità di realizzare un gesto insieme liberatorio e infantile e la maschera cade”.
Forse la fotografia più spiazzante, meno prevedibile, non certo la più acrobatica di questa serie, che ha visto coinvolte numerose personalità dello spettacolo avvezze alle scene, è quella in cui i Duchi di Windsor che con una buona dose di humor si sono prestati a questo salto, che è stato, forse anche per loro, uno svelamento di sé.