Diario di una spettatrice
Imperdibile Scorsese!
Il nuovo film di Martin Scorsese è spettacolo cinematografico allo stato puro: azioni, caratteri e immagini che catturano lo spettatore. Il conflitto tra americani e nativi, negli Anni Venti, sullo sfondo della corsa al petrolio. Con un cast d'eccezione
Prima scena: l’orizzonte sconfinato dell’America, il fottuto orizzonte per dirla con John Ford. All’improvviso la terra esplode e una pioggia di petrolio copre i corpi nudi dei nativi che danzano in controluce nel sole. E lo spettatore è già agganciato, questo è il cinema. Il nuovo film di Martin Scorsese, Killers of the flower moon presentato a Cannes, è la quintessenza di ciò che una pellicola (perché è pellicola alla vecchia maniera, mica digitale) dovrebbe essere: una storia da raccontare (vera), un cast di indiscussa bravura, una regia che sa mantenere alta la tensione così da non consentire allo spettatore di arrendersi a una lunghezza apparentemente proibitiva (3 ore e 26 minuti).
Forse Scorsese è l’ultimo a potersi permettere queste durate, l’ultimo a fregarsene dei tagli imposti dalla distribuzione. Lo spettatore entra nella storia e non si preoccupa dell’orologio, si affida a chi sa ancora raccontare un’epopea che evoca il West, i “Pellerossa” e gli orizzonti sconfinati.
Non è la corsa all’oro dell’800, è la corsa al petrolio in Oklahoma negli anni Venti del secolo scorso. Gli Osage, l’etnia che quella terra possedeva prima dei bianchi, si scoprono proprietari di immensi giacimenti. Piove ricchezza e con la ricchezza arriva la tragedia, una scia infinita di delitti su cui nessuno indaga.
La storia è vera, l’ha raccontata l’omonimo best seller di David Grann: Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the birth of the FBI. Gli omicidi dei nativi che nessuno vuole vedere sono ovviamente legati alla cupola nascente dei grandi petrolieri (come Getty), c’è una mente dietro a tutto questo sangue: The King William Hale (Robert De Niro), zio Bill per suo nipote Ernest (Leonardo Di Caprio). Vedendo agire i due protagonisti ho ripensato a Le leggi fondamentali della stupidità umana di Carlo M. Cipolla: se De Niro è l’archetipo del bandito cinico e crudele, Di Caprio lo è dello stupido, cioè colui che fa danni senza trarne alcun beneficio. Alla strage metterà fine l’FBI appena costituito da J. Edgar Hoover e i cattivi finiranno all’ergastolo. La palma per la migliore interpretazione non va però a loro, ma a Lily Gladestone che nella resistente fermezza di Mollie incarna la consapevolezza e la forza dei nativi.
Alla fine della tragedia arriva inatteso l’happy end raccontato in una scena degna del Woody Allen di Radio days, in cui lo stesso regista si concede di apparire come faceva Hitchcock nei suoi film. Imperdibile.